Per tantissimi anni la psicologia si è occupata di autostima, per definirla, misurarla e infine incrementarla. Ne ho tracciato una breve panoramica qua: (https://dariatinagli.it/autostima-conoscerla-per-coltivarla/).

L’autostima è sembrata per tanto tempo la soluzione di molti problemi emotivi e relazionali, la chiave del successo o della felicità. Da qualche tempo però diversi studi e diverse evidenze mettono in discussione questa idea. Questo è stato fatto da tempo nella psicologia dell’apprendimento e dell’educazione, per esempio da Carol Dweck, e ora anche gli psicologi che si occupano di benessere psicologico negli adulti, ne stanno osservando alcuni aspetti di fragilità.

Dati che non tornano, e nuovi modi di leggere i dati

Scrive Kristin Neff: “L’idea che dobbiamo avere un’alta autostima per essere psicologicamente sani è talmente diffusa nella cultura occidentale che le persone sono terrorizzate dal fare qualsiasi cosa possa metterla in pericolo”.

La letteratura attuale, che ha ripercorso i circa quindicimila articoli pubblicati sull’argomento, è giunta all’idea che non sia l’autostima a rendere le persone libere da difficoltà psicologiche o capaci di realizzarsi o con un’ampia gamma di comportamenti sani ma, al contrario, sembra che i comportamenti sani siano la causa di una buona autostima.

Per esempio, l’idea diffusa che i bulli abbiano spesso una bassa autostima è messa in discussione da dati che ci dicono che coloro identificati come bulli, hanno la stessa probabilità di avere una buona autostima come i non bulli, e anzi i loro atti di bullismo sono comportamenti usati per sentirsi superiori o più forti e quindi nutrire, a modo loro, la propria autostima. In particolare, da uno studio è emerso che alla notizia di aver ottenuto un basso risultato a un test, persone con alta autostima reagivano in modo aggressivo screditando gli altri partecipanti, mentre persone con bassa autostima reagivano in modo più pacato e gentile, complimentandosi con gli altri.

Autostima, e cioè?

L’autostima è data da una valutazione del proprio valore, è un giudizio su noi stessi basato su parametri ritenuti importanti.  William James sosteneva che l’autostima “è un prodotto di competenze percepite in domini di importanza.” Cioè, l’autostima deriva da quanto ci percepiamo bravi in aree per noi rilevanti. Dunque, secondo questo approccio, possiamo aumentare l’autostima in due modi: dando valore a ciò in cui siamo bravi e svalutando ciò in cui non lo siamo. Oppure aumentando le nostre capacità nelle aree che riteniamo importanti.

Ma non basta, perché l’autostima è anche influenzata da come ci percepiscono gli altri: se gli altri mi percepiscono in modo positivo la mia autostima sale, oppure al contrario può scendere. Questo filone di ricerca rileva inoltre che tendiamo a dare più valore al giudizio di estranei che a quello di persone vicine (e che dunque riteniamo troppo coinvolte per essere attendibili).

Questione di prospettiva

Le persone con alta autostima tendono a avere un’idea più positiva di se stesse e a ritenere di essere apprezzate dagli altri rispetto alle persone con bassa autostima. Tuttavia ciò che ritengono essere vero non è necessariamente la verità. Le persone con alta autostima spesso sopravvalutano la propria popolarità e quelle con bassa autostima sottovalutano quanto siano in realtà apprezzate dagli altri. Dunque, l’autostima, non è associata a essere una persona migliore delle altre ma a ritenere di esserlo.

Quando elogiare non funziona

Tuttavia, non c’è niente di male in un’alta autostima. Certamente c’è del buono nel sentirsi degni e validi, piuttosto che indegni e senza valore. Il punto è che finora l’autostima è stata troppo spesso misurata in modo inappropriato attraverso item (per esempio quelli rilevati con la scala di Rosenberg) troppo generici che non tenevano conto di come l’autostima non sia sempre una cosa che si possa ritenere sana o equilibrata. Credere in se stessi e impegnarsi per migliorarsi non è la stessa cosa che gonfiare il proprio ego e sminuire gli altri, per esempio.

L’enfasi sull’autostima e l’elogio incondizionato stanno creando diversi problemi anche per ciò che riguarda i percorsi di apprendimento e la motivazione ad apprendere, ne parla ampiamente la massima studiosa di processi di apprendimento Carol Dweck, e io lo racconto in modo specifico qui ( https://dariatinagli.it/motivazione-ad-apprendere-differenze-individuali-strategie-migliorare-lo-stile-ognuno/).

 

Il sé contingente

Il “valore di sé contingente” indica la tendenza ad attribuire valore a se stessi sulla base di un successo o un fallimento in un certo compito, o sulla base di un’approvazione ricevuta oppure no. Alcune aree coinvolte in questo processo possono essere quelle legate all’approvazione sociale, al successo sul lavoro o a scuola, l’attrattiva personale, ecc. Un processo di questo tipo funziona come una montagna russa: l’autostima diventa incredibilmente instabile e legata a un evento contingente, da qui deriva un grande dolore. Più il senso complessivo del proprio valore dipende da un successo in un certo settore, più saremo delusi in caso di fallimento in quel settore. Inoltre genera una dipendenza dal successo che di volta in volta rinforza il senso del proprio valore, una necessità che diventa sempre più forte. Questo processo viene detto “Tapis roulant edonistico“: la ricerca di un successo e della felicità a esso associata, diviene una fatica che aumenta sempre più anche soltanto per restare fermi nello stesso posto, come quando si è su un tapis roulant.

 

Immagine di sé e sé reale

Il nostro concetto di sé non è il nostro vero sé. E’ semplicemente una rappresentazione, un ritratto, a volte molto accurato a volte assolutamente no, dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, dei nostri comportamenti. Ma questa rappresentazione non rende affatto il senso della complessità, delle sfumature e delle tante sfaccettature che ci compongono.

Tendiamo a pensare che più il nostro sé mostrato corrisponde a un’idea positiva, desiderabile, adeguata e perfetta, più incontrerà l’approvazione e l’accettazione degli altri. Per questo motivo rifiutiamo ogni possibile scheggiatura a questa immagine intatta e accurata, sentendoci minacciati dai possibili difetti che possano emergere in controluce.

Scrive Kristin Neff: “Stiamo aggrappati all’autostima come se fosse un canotto gonfiabile che ci salverà, o perlomeno salverà e sosterrà il senso positivo di sé che tanto bramiamo, solo per scoprire che il canotto ha un buco enorme e si sgonfierà rapidamente. la verità è che a volte mostriamo lati positivi e altre volte no, ma non siamo definiti da queste qualità o comportamenti. Siamo un verbo, non un nome, un processo piuttosto che qualcosa di fisso.

E aggiunge: “Invece di rivelare la complessità e la ricchezza che ci caratterizzano, cerchiamo di riassumere la nostra esperienza vissuta con valutazioni estremamente semplicistiche del valore di sé. Ma questi giudizi, nel vero senso della parola, sono solo pensieri che ci portano a sentimenti di isolamento, disconnessione e insicurezza”.

 

Autocompassione e autostima

Qualcosa che funziona come, e meglio dell’autostima, potrebbe essere l’autocompassione (self-compassion) se solo la scegliessimo e le facessimo spazio. L’autocompassione non cerca di definire il nostro valore, non è un giudizio e nemmeno un’etichetta. E’ un modo di relazionarci al mistero di chi siamo. L’autocompassione sa e accetta il fatto che siamo un insieme di aspetti positivi e negativi, abbiamo sia forza che debolezza, successi e fallimenti vanno e vengono e non stanno lì a definire chi siamo, né a misurare il nostro valore.

Dunque, a differenza dell’autostima, l’autocompassione genera sentimenti positivi su noi stessi che non dipendono dall’essere speciali, migliori o realizzati in un obiettivo. I sentimenti positivi generati dall’autocompassione derivano dal prenderci cura di noi stessi così come siamo. Non c’è confronto o competizione, ma la consapevolezza che siamo insieme agli altri, connessi con gli altri. 

Quando la fantasia volubile dell’autostima ci abbandona, l’abbraccio onnicomprensivo dell’autocompassione è lì che aspetta pazientemente” (K. Neff).

Autostima e autocompassione possono crescere insieme, se c’è autocompassione c’è anche una maggiore autostima.

Davanti a un fallimento l’autostima è minacciata e ci porta a difenderci con rabbia o aggressività, perché si vuole salvaguardare l’idea di sé come superiori o perfetti. Invece l’autocompassione arriva dove l’autostima crolla, davanti al fallimento e al dolore, l’autocompassione c’è e ci sorregge, di fronte a un fallimento l’autocompassione non giudica e non condanna ma accoglie e semplicemente c’è.

Accettare in modo compassionevole i propri limiti e le imperfezioni permette di mollare la presa nel cercare di nasconderli o dissimularli. L’autocompassione ci lascia liberi dal dolore di non essere perfetti e ci fa sentire connessi con gli altri, finalmente accettati per quello che siamo, parte di qualcosa di molto più grande e significativo del nostro piccolo sé.

 

Infine, un piccolo esercizio

Elenca dieci aspetti di te stesso che per te hanno un ruolo importante nella tua autostima.

Poi fatti queste domande relative a ogni elemento, e guarda se le tue risposte modificano il tuo modo di pensare:

  • voglio sentirmi migliore degli altri o voglio sentirmi connesso?
  • il mio valore viene dall’essere speciale o dall’essere umano?
  • Voglio essere perfetto o sano?

 

Se stai pensando di intraprendere un percorso di supporto psicologico per migliorare il tuo benessere personale,
puoi chiamarmi per fissare un primo colloquio conoscitivo al n. 338-8317876

 

Riferimenti bibliografici:

La self-compassion, il potere di essere gentili con se stessi. Kristin Neff, ed. Franco Angeli, 2019