Svegliami a mezzanotte racconta prima di tutto il dolore, quello dell’autrice che sceglie di ripercorrere la propria vita cercando di individuare e descrivere tutte le volte in cui il dolore si è fatto sentire. 

Come scrive Albert Camus ne Il mito di Sisifo: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta“.
Eppure, una spiegazione valida per tutti non c’è , perché “ognuno ha la sua storia”, ci dice l’autrice, e ogni storia è diversa. Ognuno porta il peso del proprio dolore come può, un po’ frutto della propria storia personale, un po’ frutto dei geni che ha ereditato, un po’ forse persino frutto del caso che un certo giorno ha scelto qualcosa e non qualcos’altro.

Questa è la storia di chi quel dolore lo ha attraversato e ha deciso che non avrebbe voluto più sopportarlo, è la storia di un suicidio raccontata da chi è sopravvissuto a quel gesto e a quella decisione. Fuani ha 32 anni, una laurea in psicologia, un lavoro come giornalista che le piace, un marito che la ama e una bambina di tre mesi. Si butta dal quarto piano di una palazzina in una località di mare, in un pomeriggio di fine luglio.

E poi sono caduta, ma non sono morta”.

Fuani sopravvive a quello che non è un ‘tentato suicidio‘ ma è piuttosto un ‘mancato suicidio‘. Nel primo caso il gesto, seppure ugualmente disperato, mostra un aspetto di incertezza, e grida soprattutto “aiuto”. Nel secondo caso l’incertezza non è prevista, tutto va nella direzione di un esito certo, se grida qualcosa, grida soltanto “basta”.

Ma per Fuani qualcosa non va come previsto, dopo quel gesto che vuole essere definitivo, sopravvive e si ritrova in ospedale, intubata e immobilizzata a letto per mesi.
Attraverso queste pagine seguiamo la sua storia e il suo sguardo che si sposta in cerca di dettagli e punti di vista da condividere, ripercorrendo la storia di scrittori e scrittrici, dei loro libri e dei loro personaggi, interrogando la psichiatria, la medicina, la neuropsichiatria, la psicologia.

Prende forma così un percorso nella fragilità umana, fatto con lucidità e con grande onestà. Non direi “con coraggio”, dote più volte attribuita all’autrice e al suo libro, non lo direi perché trovo che non ci sia niente di coraggioso nella volontà di ricercare la verità con onestà intellettuale verso se stessi, verso il proprio dolore e verso gli altri. Piuttosto, come scrive l’autrice stessa, si tratta di orgoglio (“pride”), cioè “lo stesso sentimento di appartenenza e rivendicazione che fa scendere in piazza la comunità lgbt per dire finalmente, dopo secoli di vergogna e silenzio: io sono così”.

Ecco perché l’autrice ha scelto di scrivere questo libro: “non ho voluto fare della mia vita una farsa. E me ne assumo la responsabilità. Quando quest’ultima mi sembrava troppo pesante, dicevo a me stessa che in ogni caso la verità, prima o poi, sarebbe venuta a galla. E allora tanto valeva che a raccontarla fossi io”.

La verità che ci racconta è un dolore che dopo tanto cercare scopre di avere anche un nome: si chiama disturbo bipolare di tipo 2, ha quindi una possibile diagnosi e una cura, una imprescindibile di tipo farmacologico (alla quale va la dedica all’inizio del libro) e una psicoterapeutica (nello specifico una terapia cognitivo comportamentale). Molte pagine ci raccontano cosa significa vivere ogni giorno con un disturbo bipolare, la fatica che porta con sé la quotidianità con una malattia psichiatrica e la difficoltà di sopportarne lo stigma. Insieme a tutte queste difficoltà per Fuani c’è anche quella complessa e inevitabile di vivere come sopravvissuta, di portare ogni giorno con sé le cicatrici che si vedono e quelle che non si vedono, di seguire una lenta riabilitazione fisica e sociale, quella di una persona che ha scelto di dire basta al dolore insopportabile decidendo di mettere fine alla propria vita, e che dopo, quando è sopravvissuta, ha cercato di andare avanti: “ho proceduto a tentoni, procedo ancora. Sperando a ogni passo, di non cadere più”.

Le parole forse più significative le pronuncia una Dottoressa durante il ricovero in Ospedale, prima di prescriverle il farmaco più adatto per la sua situazione specifica,  a mio avviso testimonianza che medicina e psicologia possono (e devono) coesistere rafforzandosi l’una con l’altra:

La dottoressa mi disse che il mio gesto non cancellava quanto avevo fatto in passato né rappresentava ciò che ero nella mia totalità, quindi non avrei dovuto lasciargli prendere il sopravvento su tutto il resto. Tu non sei quello che hai fatto. E’ solo una cosa che ti è successa, ripeté”.

 

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Riferimenti Bibliografici:

Svegliami a mezzanotte, di Fuani Marino, Ed. Einaudi, 2019