Questo tempo rarefatto e sospeso è arrivato come un tempo nuovo, un tempo indecifrabile. All’inizio l’ho osservato, incapace di vederlo davvero, fino a che un po’ alla volta ho intravisto nella sua monotonia apparente qualcosa di famigliare e in qualche modo rassicurante.

Le giornate di oggi sono lente, ripetitive, lontane da tutto e da tutti, scandite da rituali banali che allontanano da un’azione impegnata e avvicinano a qualcos’ altro che non so. E’ in questa ritualità silenziosa che queste giornate non sono nuove. E’ in questa quotidianità invisibile che assomigliano tanto ai giorni nei quali era appena nata la mia bambina e allo stesso tempo avevo cambiato casa.

Era primavera, come adesso, la luce fuori inondava di tepore la casa piena di finestre. Una casa sconosciuta , in attesa di essere esplorata, occupata, consumata dal ripetersi di gesti familiari e noncuranti.
Nuove abitudini da imparare. Nuovi rumori da riconoscere. I primi passi di Saverio che da poco aveva iniziato a camminare. Il pianto di Teresa che sembrava inconsolabile. Un nuovo modo di prendermi cura di qualcuno, un nuovo modo di occupare il mio spazio e il mio tempo. Una lontananza da tutto il resto che non fosse lì, in quello spazio inesplorato, una lontananza che sarebbe durata mesi, solo che ancora non lo sapevo, non lo immaginavo nemmeno. Un secondo figlio, specie se così vicino al primo, avrebbe deciso al posto mio quanto sarebbe stata lenta e faticosa la ripresa di una vita apparentemente normale, là fuori.

Non me ne preoccupavo più di tanto. Mi sentivo completamente coinvolta e concentrata nei gesti semplici e ripetitivi dell’accudimento, nel desiderio di nutrire, educare e crescere due bambini che iniziavano a guardarmi con occhi enormi e scuri, bambini che imparavo a conoscere con pazienza, mentre mi sembrava, così facendo, di iniziare a conoscere parti di me ignote. Aspetti finora inascoltati, sovrastati dal rumore che c’era fuori, negli aperitivi con gli amici ai quali non partecipavo più, nelle aule dell’università frequentate fino a poco tempo prima, nella musica troppo alta alle feste di compleanno, di laurea, di matrimonio, tutte quelle cose che riempivano i giorni passati, giorni lontani, quasi di un’altra vita.

A volte quei ricordi si affacciavano imbellettati e perfetti, mi sussurravano che erano proprio loro la vita, il fare, il contare, il senso e il valore che cercavo. A volte ascoltavo questo sussurro e finivo per credergli, distraendomi dal suono del mio presente che intanto continuava a parlarmi, nonostante la stanchezza, la paura, lo sconforto e tutta quella sensazione di isolamento e leggero panico che a volte prende a una mamma con dei figli piccoli da accudire, una quotidianità lontana da tutti, e un lavoro che spesso non ti aspetta, anzi, ti tira per la giacca, o forse per la vestaglia.

Queste paure a volte erano informi e senza voce, a volte avevano l’aspetto di un tremolio improvviso nella notte, un terremoto che a maggio si fece sentire in molte città compresa la mia, mentre con Teresa in braccio guardavo fuori dalla veranda, nel buio, per provare a capire se dovessi restare o scappare giù per le scale, fuori. Non c’era bisogno di fuggire, ma quelle scosse fecero emergere la mia vulnerabilità, amplificandola, come un’eco che parte piano e poi ti accorgi che era un boato.

Oggi come allora mi sento quasi tutta raccolta nei gesti di una quotidianità nuova, nel ritmo delle cose di ogni giorno, nella rassicurante prevedibilità degli eventi che si svolgono nello spazio compreso tra la cucina e il tavolo da pranzo.

Oggi come allora mi scopro a accudire dei giorni che si susseguono nella loro splendida monotonia, cercando di averne cura, con pazienza, responsabilità e amore, come quando mi dedicavo alla crescita di due bambini nati da poco, dimenticando il mondo fuori, con le sue lusinghe e i suoi richiami, solo perché c’erano loro che avevano bisogno di me.

Oggi è il mondo là fuori che ha bisogno della mia pazienza e della mia responsabilità, allora scelgo di esserci, prendermene cura come posso, come so fare, raccolta nello spazio tra la cucina e il tavolo da pranzo.

Non so mai capire le cose mentre accadono. E’ solo a distanza di tempo che riesco a vederle meglio, un po’ più da lontano, più in prospettiva. E’ soltanto così che possono tornare e portare con sé un senso e un valore nuovi. E’ per questo che ancora non riesco a vedere bene, capire e raccontare i giorni che stanno passando, e passeranno ancora. Sono giorni che passano senza insegnarmi niente, non a essere più buona, non a essere più generosa o consapevole, né migliore, in nessun modo. Adesso posso soltanto provare a osservarli e a tracciare similitudini e differenze con qualcosa che ho già attraversato e conosco bene.

Forse un giorno, in un futuro che spero prossimo, alcune immagini torneranno come schegge di luce e sapranno illuminare e dare un senso a quello che un senso ancora non ce l’ha.

(Questo mio articolo è stato pubblicato alcuni giorni fa sulla rivista culturale Il Pesce Tra Le Nuvole. Al momento, per me, l’unica riflessione possibile in questo periodo complicato).