Le parole sono finestre, oppure muri, ci imprigionano o ci danno libertà.

Quando parlo e quando ascolto, possa la luce dell’amore splendere attraverso me.

Ci sono cose che ho bisogno di dire, cose che per me significano tanto,

se le mie parole non servono a chiarirle, mi aiuterai a liberarmi?

(R. Bebermeyer)

 

Ognuno è portato a provare piacere nel dare e ricevere con empatia, mettendo cioè in gioco una parte di se stesso, del proprio ascolto, del proprio modo di essere. Tuttavia, nella vita di ogni giorno, abbiamo spesso relazioni e modi di comunicare che ci alienano da una comunicazione empatica e non violenta, e anzi ci inducono a comportarci e parlare in un modo che ferisce l’altro e noi stessi.

Ecco alcuni modi possibili che impediscono una buona comunicazione:

  • l’ uso di giudizi moralistici che implicano il torto o la cattiveria di chi compie un’azione ritenuta sbagliata, cioè contraria ai nostri valori.
  • l’ uso di paragoni che possono bloccare l’empatia.
  • formulare i nostri desideri sotto forma di pretese.

Questi tipi di comunicazione ci alienano dalla vita e offuscano la consapevolezza che ognuno è responsabile dei propri pensieri, i propri sentimenti e le proprie azioni.

 

La comunicazione non violenta, ideata da Marshall Rosenberg,  può aiutarci in un percorso di conoscenza e consapevolezza del nostro modo di pensare e può aiutarci così a migliorare la nostra comunicazione, le parole che usiamo, il modo in cui parliamo e ascoltiamo, e dunque anche il modo in cui pensiamo e ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri. La comunicazione non violenta ci dice che “le parole sono finestre (oppure muri)” e sono anche carezze che possono alleviare e curare il dolore più insopportabile che deriva dal non riuscire a capire, a capirsi, essere capiti e forse, soprattutto, sentirsi capiti (perché, come disse un mio Professore in una lezione che non dimentico. “il bisogno principale di ognuno di noi è sentirsi sentito“).

 

Osservare senza valutare

Il nostro linguaggio è uno strumento imperfetto, è qualcosa di statico che usiamo per descrivere qualcosa di mutevole, usiamo parole che sono etichette e definizioni per descrivere qualcosa di molto più sfaccettato e complesso, e le pronunciamo come fossero verità o dati di fatto, quando invece, solitamente, sono osservazioni di eventi mischiate a un giudizio soggettivo o a un’interpretazione. Ogni aggettivo che usiamo, per esempio, positivo o negativo che sia, è un’etichetta, che imprigiona la cosa o la persona descritta in un ruolo statico e definitivo, quando invece per sua natura cambia, con il tempo o anche solo attraverso gli occhi (e le parole) di chi lo descrive.

Che io dica “sei buono” o “sei disonesto” sto comunque valutando in modo soggettivo qualcosa fuori da me, dando per assodato che il mio giudizio soggettivo abbia una validità oggettiva. Quello che posso fare, allora, è non dare etichette così generiche ma essere specifico e circoscritto, descrivere una situazione oggettiva e poi eventualmente dare un’opinione relativa alla situazione e non alla persona: “Quando succede questa cosa, penso che sia un comportamento disonesto”.

E’ importante, quando osserviamo, essere specifici, circoscritti e mirati in ciò che osserviamo e cerchiamo di capire, non generalizzare, può essere utile ricordarsi di non usare parole assolute come “mai”, “sempre”, “tutti” e così via, quando ci accorgiamo che nella nostra frase è presente una parola tesa a generalizzare, diciamo a noi stessi che siamo fuori strada, e cerchiamo di tornare con il nostro pensiero e le nostre parole sulla strada di un’osservazione non giudicante e specifica.

Individuare e esprimere i sentimenti

Una volta che abbiamo imparato a osservare una situazione sospendendo il giudizio, è il momento di imparare a esprimere come ci sentiamo, infatti, dopo aver espresso quale situazione riteniamo inadeguata o fonte di dolore, senza giudicarla, è importante aprirsi all’altro esprimendo con onestà il modo in cui, quella specifica situazione, ci fa sentire. A volte siamo così poco in contatto con le nostre emozioni che ci sembra di non sentire niente, impegnati come siamo a evitarle o dissimularle o nasconderle.

Prima di tutto è importante distinguere tra sentimenti e non sentimenti, la parola “sentire” viene usata in troppi contesti che non hanno a che fare con un sentimento ma con un pensiero:

“Mi sento poco importante per i miei colleghi di lavoro” indica il modo in cui penso che gli altri mi stiano valutando (poco importante, di scarso valore), la stessa cosa potrebbe essere nella frase “Mi sento frainteso, ignorato” ecc.

Dunque, per esprimere invece un sentimento, dovrei esprimermi con parole relative a sentimenti come: “Mi sento triste, mi sento demoralizzato”.

 

Prendersi la responsabilità dei propri sentimenti

“Le persone sono turbate non dalle cose, ma dalle opinioni che di esse si fanno” (Epitteto)

Un passo importante è imparare a riconoscere che i nostri sentimenti dipendono da noi, e accettarlo prendendocene la responsabilità. Quello che gli altri fanno o dicono può essere lo stimolo che ci fa sentire in un certo modo ma non è mai la causa. I nostri sentimenti sono il risultato del modo in cui scegliamo di ricevere quello che gli altri dicono e fanno, e dei nostri particolari bisogni e aspettative che abbiamo in quel determinato momento. E’ quello che facciamo a dare origine ai nostri sentimenti.

Quando riceviamo un messaggio negativo (es. “Sei la persona più insensibile che conosca“), possiamo riceverlo in quattro modi diversi:

  • prenderlo in modo personale, sentendosi criticati, leggendoci una colpa, e sperimentando così vergogna e tristezza (es. “Hai ragione, sono davvero così, scusami”).
  • rigirarlo all’interlocutore, rimandando l’accusa a chi l’ha mossa per primo, provando probabilmente rabbia (es. “Non hai diritto di dirmi così, sei tu davvero insensibile”).
  •  focalizzarci sui nostri sentimenti e bisogni con consapevolezza (es. “Quando dici che sono insensibile, mi sento addolorato, perché ho bisogno che il mio impegno nei tuoi confronti sia riconosciuto come tale“).
  • focalizzarci sui sentimenti e i bisogni dell’altra persona (es. “Ti senti arrabbiato perché hai bisogno che io dia più attenzione ai tuoi bisogni?“)

Quando riconosciamo quali sono i nostri bisogni, desideri, valori, aspettative o pensieri, accettiamo la responsabilità dei nostri sentimenti anziché dare la colpa a altre persone.

 

Riconoscere e esprimere i bisogni nostri e altrui

I giudizi, le critiche, le interpretazioni e le diagnosi sugli altri sono tutte espressioni alienate dei propri bisogni. Se qualcuno ci dice “Non mi capisci mai” , in realtà ci sta dicendo che il suo bisogno di essere compreso non è soddisfatto.

Quando esprimiamo i nostri bisogni in modo indiretto, con valutazioni, interpretazioni e giudizi, gli altri percepiranno una critica. Quando le persone percepiscono qualcosa che suona come una critica, si chiudono, si difendono da essa, da una minaccia e attaccano. Se desideriamo ricevere una risposta empatica, dobbiamo imparare a esprimere i nostri bisogni e accogliere quelli degli altri.

I bisogni che appartengono a ognuno di noi sono:

  • autonomia
  • celebrazione
  • integrità
  • interdipendenza
  • bisogni fisiologici
  • gioco
  • comunione spirituale

Nel nostro mondo siamo spesso giudicati in modo netto se riveliamo i nostri bisogni, per questo possiamo avere paura a esprimerli. Se non diamo per primi valore autentico ai nostri bisogni, è probabile che nessuno lo faccia al posto nostro.

Il modo in cui ci relazioniamo con gli altri ha in sé gran parte dell’origine del dolore che proviamo e al tempo stesso la possibilità di affrontare e liberarsi di questo dolore, modificando il modo di stare in certe relazioni e di comunicare. Questo percorso di consapevolezza e cambiamento nel modo di stare nelle relazioni è fatto di tre tappe:

  • in un primo stadio impariamo che ci sentiamo responsabili dei sentimenti degli altri: quando siamo “fusi” con un’altra persona dall’amore che proviamo per lei, non percepiamo assenza di individualità o bisogno di libertà, quando invece questi bisogni a poco a poco iniziano a emergere, la responsabilità necessita una accettazione più consapevole e più complessa.
  • in una seconda fase capiamo che proviamo in tutti i modi di rifiutare l’idea che i sentimenti e i bisogni degli altri siano per noi fonte di interesse, coinvolgimento e dolore: fatichiamo a staccarci dal senso di colpa che deriva dal non voler più accontentare gli altri per paura di deluderli o perderli, allora ci arrabbiamo con loro, diventiamo aggressivi, mostriamo disinteresse per i loro bisogni, confondiamo i piani di interesse e responsabilità.
  • nella fase finale, accettiamo che abbiamo piena responsabilità dei nostri sentimenti ma non di quelli altrui: siamo consapevoli che non potremo mai soddisfare i nostri bisogni a spese di quelli di altre persone, i bisogni degli altri ci interessano, ma non sono direttamente sotto la nostra responsabilità. Siamo in grado di riconoscere e esprimere i nostri bisogni e siamo interessati ai nostri così come a quelli degli altri, in modo aperto e libero.

 

Se stai pensando di intraprendere un percorso di supporto psicologico per migliorare il tuo benessere personale,
puoi chiamarmi per fissare un primo colloquio conoscitivo al n. 338-8317876

 

Riferimenti bibliografici:

Le parole sono finestre (oppure muri), di Marshall B. Rosenberg. Esserci Edizioni.