Vita e letteratura possono stare insieme, e darsi senso reciprocamente, a patto che ci sia una ricerca attenta della verità e un senso morale e civile alla base. La vita di Natalia Ginzburg è stata un cammino costante teso alla ricerca della verità, senza risparmiarsi, un cammino spesso faticoso, per strade difficili e a volte polverose, ma è stato un cammino che non si è mai fatto incerto e non si è mai fermato.
Sandra Petrignani ha ripercorso la vita di Natalia Ginzburg, passo dopo passo, leggendo lettere, sottolineando parole, appuntandosi idee e intuizioni, suonando ai portoni, salendo scale, fotografando oggetti, chiedendosi probabilmente che forma avrà preso poi, nel suo libro, una certa sfumatura o un certo dettaglio. Provo a immaginare questo immenso e appassionato lavoro di ricerca, ma è un lavoro così vasto che mi perdo. Invece la Petrignani non si è persa. Per 430 pagine ha tenuto sicura il filo di una storia che è una biografia, ed è il racconto del nostro Novecento letterario, politico e storico.
Così come in Lessico Famigliare abbiamo amato la Storia che entrava e usciva da casa Levi con impeto o con noncuranza, ne La Corsara non possiamo fare altro che seguire con curiosità, partecipazione e gratitudine tutta la Storia di cui ogni pagina è impregnata. La Storia più bella, quella che nei manuali non si trova, la Storia quotidiana, concreta, vera.
Penso che la Ginzburg avrebbe amato questa sua biografia, la Ginzburg che ha sempre ritenuto la ricerca della verità il motivo portante della letteratura e della vita stessa, non potrebbe non amare questo suo ritratto ricco di verità e privo di congetture astratte o supposizioni. Sembra che la Petrignani sia riuscita a farsi piccola e a lasciar parlare la storia degli altri, facendosi sentire solo di tanto in tanto, con tono affettuoso e comprensivo, quando indispensabile, proprio come una madre o una grande maestra dovrebbe fare. La Petrignani ha scritto un libro corale, capace di uno sguardo ampio, esterno ma sempre coinvolto, forse proprio quel genere di libro che la Ginzburg ha desiderato scrivere per tutta la sua vita.

Natalia è l’ultima di cinque figli, e in famiglia è sempre l’ultima a avere la parola, solo dopo che tutti gli altri hanno detto la propria, così lei registra e ascolta, soprattutto, e poi scrive nel suo quaderno, parla poco, perché in pochi si prendono la briga di starla a sentire. Natalia non ama andare a scuola, si sente sempre un po’ a disagio per qualcosa: il cappotto, i calzettoni, i capelli corti, i brutti voti che prende. Una sensazione di inadeguatezza che non la lascerà mai del tutto, un qualcosa che sarà il suo limite e la sua forza allo stesso tempo per tutta la sua vita, anche quando sarà una scrittrice affermata e ascoltata con attenzione, resterà in lei sempre “quell’antico senso di sconforto e senso di inferiorità” e l’incapacità di sbarazzarsi dell’ “impiastro per sempre”, come la definiva il padre.

A diciassette anni conosce Leone Ginzburg, e, qualche tempo dopo, tra i due nascerà un amore di una forza e un’intensità che non ha niente da invidiare alle grandi storie d’amore letterarie. Leone si innamora di questa ragazza che in foto non si piace mai, le scrive “com’è dolorosa la tua bocca anche quando sorridi”. Leone riesce subito a capire l’animo complesso di questa giovane donna e a intuirne l’enorme potenzialità letteraria e intellettuale. Leone la sostiene sempre, nei suoi sforzi, nei suoi obiettivi, nelle sue aspirazioni, entrambi si sono sempre amati e sostenuti l’uno con l’altra, fino alla fine. Leone era un uomo di infinita intelligenza e profonda sincerità, un uomo che credeva nelle persone e che sapeva comprenderne e amarne le debolezze, ci dice la Petrignani. Norberto Bobbio, suo compagno di Liceo, lo ricorda così: “La vera patria di Ginzburg era il mondo della coscienza morale. Da quel mondo scendeva sugli altri, per combattere le sue battaglie contro le debolezze, le meschinità, le menzogne, gli errori, la mediocrità di ogni giorno, contro i compromessi degradanti e le utili insincerità”.
Leone è stato così anche con Natalia, ha saputo infonderle il coraggio di scrivere e diventare quella che è diventata, con la sua presenza e il suo calore che probabilmente l’hanno accompagnata sempre dopo la sua morte atroce e solitaria. Le scrive Leone nell’ultima lettera poco prima di morire: “Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero spesso l’unico ponte di passaggio. Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi morirei volentieri. Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio. Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa.”

E’ il 1944, Natalia non ha ancora ventotto anni. Tiene fede alla richiesta del marito, sceglie di prendere il suo cognome e cresce da sola i loro tre figli ancora piccoli. Comincia a lavorare per Einaudi, dà inizio alla sua vita di intellettuale, si dedica alle traduzioni e alla revisione di romanzi, diventa parte integrante della vita culturale in Einaudi e non solo, insieme a Calvino, Pavese, poi Moravia, la Morante, e molti altri. Sono anni di grande impegno letterario e civile, crescono legami di amicizia profonda, ricchi, stimolanti. Ecco, se ha avuto un qualche privilegio, nella sua vita, è stato quello di poter conoscere e confrontarsi ogni giorno con persone di grande valore umano, persone alla sua stessa altezza intellettuale e morale.

Diversi anni dopo incontra l’altro grande amore della sua vita, Gabriele Baldini, anglista un po’ eccentrico, esuberante, ma anche enormemente umano e divertente, un’unione che fa scoprire a Natalia stessa parti di sé finora inespresse, la sua vena più leggera attraverso la quale guardare in particolare i rapporti umani. Inizia così a dedicarsi alla scrittura di commedie per il teatro, commedie che avranno spesso un buon riscontro di critica e di pubblico. E ancora, questa nuova consapevolezza, questa ironia e autoironia scoperte da poco, sono anche quelle che daranno forma al suo libro più noto: Lessico famigliare.
Scrive a proposito del suo matrimonio con Baldini in un pezzo dal titolo I difetti di mio marito: “La nostra vita quotidiana si svolge dunque in questo contrasto: io difendo le mie monotone abitudini, lui cerca di travolgermi nelle sue ore vertiginose”. E’ consapevole, leggera, scherzosa.
Tuttavia, la vita per Natalia non è mai stata leggera, da Gabriele Baldini avrà due figli, entrambi gravemente malati, Susanna, con una encefalopatia, che vivrà sempre con lei e le sopravviverà, e poi Antonio, che vivrà soltanto un anno. Dopo la nascita di Susanna, figlia amatissima, alla quale sarà unita per tutta la vita da un amore e un dolore profondo, per un periodo Natalia non scriverà: “C’è un pericolo nel dolore così come c’è un pericolo nella felicità, riguardo alle cose che scriviamo”.
Ci saranno per Natalia anche altri gravi lutti, la morte della madre, la morte improvvisa dell’amico Adriano Olivetti, poi la morte tragica del caro amico Pavese e la morte di Calvino. Tutti grandissimi punti di riferimento per lei.

La vita, il destino, non sono mai stati clementi con Natalia che più volte “è caduta in un pozzo”, e non ha timore di parlarne: “Le donne hanno la cattiva abitudine di cadere in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. A me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro” . E’ forse questo uno dei motivi per cui, per un lungo periodo, non senza dubbi e incertezze, si è dedicata a un percorso di psicanalisi presso un terapeuta junghiano a Roma.

Eppure, quello che appare evidente da queste pagine è l’enorme forza di Natalia, la sua vitalità che non si manifesta come esuberanza o inefficace agitazione, ma che si mostra nella sua capacità di andare avanti, di tenere fede ai suoi princìpi e ai suoi valori, di non smarrire la direzione, nonostante tutto. Scrive: “Amare la vita e crederci vuol dire anche amarne il dolore; vuol dire amare il tempo in cui siamo nati e le sue voragini di terrore; vuol dire amare, del destino, la sua oscurità e la sua tremenda imprevedibilità”.

Il tempo passa, e il mondo intorno comincia a cambiare, Natalia come da bambina, osserva e registra, ma il suo sguardo, il suo rigore, il suo senso critico, sembrano non riuscire quasi più a stare al passo. Si ingarbugliano, si confondono, a volte si irrigidiscono, prendono un tono perentorio, a volte insofferente.
“Questo mondo non mi piace. Generosità, coraggio, desiderio di essere, non di apparire, sono grandi virtù ormai scomparse. Ovunque, ci sono rimaste purtroppo solo quelle piccole”, riflette durante un’intervista (che di solito rilascia malvolentieri).

La società cambia, i rapporti famigliari a lei cari da sempre, ora le sfuggono, non sono più luogo di crescita, educazione e speranza, le appaiono fasulli, la culla dell’ipocrisia e della mediocrità che proprio non fanno per lei.
“Io non credo che la famiglia sia sacra, credo invece che i rapporti tra uomini e donne siano lacerati e straziati nello stesso sfascio universale, nella scomparsa dei valori reali”. Occorre rigenerare quei valori e quei rapporti. Ma, aggiunge: “Questo non può essere il compito di una legge. Questo è il compito di ogni singolo essere, nell’intimo della sua anima e del suo destino”, dice in aula quando si dibatte sulla legge contro la violenza sessuale, nel 1989.
Natalia porta avanti il suo lavoro come parlamentare con impegno e coerenza, ma ancora una volta sente che non le appartiene completamente, ancora una volta torna il suo disagio di sempre, il suo non sentirsi adeguata o nel posto giusto. Scrive però un ritratto molto appassionato di Berlinguer, in occasione della sua morte, un pensiero in cui torna il “vero”, il tema portante di ogni sua riflessione: “Era timido, e i personaggi politici o pubblici abitualmente non lo sono. Era mite, e i personaggi politici o pubblici sono abitualmente stizzosi e rissosi. (…) Era triste, e i personaggi politici di solito non sono tristi, perché il vero non lo affrontano, ma lo tengono a opportuna distanza”.

Attraverso le pagine dei giornali, da tempo, intreccia una comunicazione fitta, diretta, vivacissima con i suoi lettori che la seguono sempre più numerosi: la sua voce ora conta, conta moltissimo, ma lei non si cura di essere diplomatica, parla con lo stesso modo diretto e sincero, a volte scomodo, che ha avuto fin da bambina. Il suo giudizio è sempre onesto e libero, scrive: “Lo sforzo di ognuno deve essere quello di giudicare ciascuna cosa, opera o persona, isolandola dal giudizio degli altri”. Si occupa di attualità, di aborto, di femminismo, di libri, di educazione, di genitori e figli, di scuola, di politica, si occupa sempre e solo di ciò che conosce bene e le sta a cuore, per qualche motivo personale.
Un argomento che con il passare degli anni le sta sempre più a cuore (forse da quando è diventata nonna) è l’educazione delle nuove generazioni, su questo scrive dei brani che ancora oggi suonano attuali e lucidissimi: “Per quanto riguarda l’educazione dei figli penso si debba insegnare loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza del denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere”. E ancora: “Al bambino bisogna dire la verità su tutto quello che ha un’importanza reale e profonda”.

La Corsara è un libro un po’ biografia, un po’ saggio, un po’ romanzo storico, un po’ romanzo epistolare. E’ un libro forse non catalogabile, perché non è destinato a confondersi in mezzo a altri o a essere dimenticato, ma è fatto per distinguersi e brillare in mezzo a tutto il resto.
La Corsara ci dice che vita e letteratura possono andare di pari passo, e soprattutto ci racconta il nostro Paese come è stato, solo qualche anno fa, e come eravamo noi: morali (senza il pericolo di essere chiamati moralisti), integri, generosi (senza il rischio di essere chiamati buonisti), coinvolti, capaci di senso critico, di impegno politico e civile.
La Corsara ci racconta di un senso di appartenenza fatto di inclusione e non di muri, di un desiderio di cultura diffusa e non per pochi, di voglia di impegnarsi per sé e per tutti gli altri, di voglia di stare nel mondo, senza distrarsi troppo.
La Corsara ci dice che siamo stati tutto questo, e allora, chissà, forse un giorno sarà possibile tornare a esserlo ancora.

 

Bibliografia: La corsara, ritratto di Natalia Ginzburg, di Sandra Petrignani, Edizione Neri Pozza 2018

http://www.neripozza.it/collane_dett.php?id_coll=1&id_lib=1138