Parlare di suicidio significa affrontare un tema che mette in contatto numeri, contesti di vita e sofferenze difficili da decifrare dall’esterno. In Italia, ogni anno, si registrano circa quattromila morti per suicidio. Un fenomeno che appare stabile solo in apparenza e che, negli ultimi anni, mostra segnali di variazione in alcune fasce d’età e in particolari aree del Paese.

Secondo l’ISTAT, nel 2021 sono morte per suicidio 3.853 persone, di cui oltre il 75% uomini. Negli ultimi anni si osserva un aumento delle richieste di aiuto collegate a ideazione suicidaria: nel 2023, Telefono Amico Italia ha registrato più di 7.000 contatti per pensieri suicidari (+24% sul 2022). Il primo semestre del 2024 mostra una lieve flessione, pur mantenendo numeri più alti rispetto al periodo pre-pandemico.

Il quadro geografico resta disomogeneo: le aree con minore densità abitativa, soprattutto nel Nord-Est, registrano tassi più elevati. Le regioni del Sud presentano storicamente valori più bassi. Questo dato rimanda non solo a condizioni socio-economiche differenti, ma anche alla presenza o meno di reti sociali, servizi e possibilità di accesso al supporto.

Il suicidio rimane più frequente tra gli anziani, specialmente dopo i 65 anni, ma la fascia giovanile mostra un andamento che preoccupa: a livello mondiale, il suicidio è oggi la seconda causa di morte tra i 15 e i 24 anni. In Italia, dal 2020 al 2021, si è osservato un incremento negli under 35.

Oltre le cause immediate: il processo che conduce al suicidio

Il suicidio non è mai la conseguenza di un solo fattore. È il risultato di un’interazione tra vulnerabilità individuali, eventi di vita, condizioni sociali ed elementi psicologici che, insieme, creano un carico difficilmente sostenibile.

La suicidologia, cui Edwin Shneidman ha dato un contributo fondamentale, descrive il suicidio come tentativo di porre fine a un dolore mentale percepito come inevitabile. Shneidman parlava di psychache: un tormento interiore che non trova soluzioni percepibili. In questa prospettiva, la domanda centrale non è “perché vuole morire?”, ma “dove sente dolore e come può essere alleggerito?”.

Il processo che porta alla decisione non è improvviso. L’idea del suicidio compare e scompare più volte, viene valutata, scartata, poi riprende forma. La fase conclusiva può sembrare impulsiva, ma è preceduta da un dialogo interiore lungo e complesso. Quando la persona decide, può mostrare un miglioramento apparente: non è sollievo autentico, ma la fine della lotta interna.

Sul piano psicologico emergono alcuni elementi ricorrenti:

perdita di speranza e di prospettiva futura,

visione “a tunnel”: riduzione delle alternative percepite,

pensiero dicotomico (“o tutto cambia o non c’è via d’uscita”),

isolamento,

fatica a comunicare il proprio stato interno.

Sul piano sociale, incidono fattori come la mancanza di reti, la precarietà economica, la solitudine abitativa, l’assenza di servizi accessibili. La crisi del 2008 ha mostrato con chiarezza come instabilità lavorativa e perdita del ruolo possano aumentare il rischio, soprattutto negli uomini tra i 30 e i 60 anni.

La minor resilienza degli uomini di fronte ad “eventi critici” è anche rilevabile dal fatto che i tassi età-specifici di mortalità per suicidio aumentano con l’età sia per gli uomini che per le donne, ma per gli uomini si osserva un aumento esponenziale a partire dai 65 anni di età in corrispondenza con l’età al pensionamento.

Un milione di suicidi ogni anno nel mondo è una perdita di vite umane inaccettabile e per la quale poco ancora si fa rispetto ad altre problemi di sanità pubblica. Poco serve a rammentare che nel mondo ogni 40 secondi si verifica un suicidio e ogni tre secondi si registra un tentativo di suicidio. Inoltre si è assistito a una crescita dei tassi di suicidio tra i giovani, segnando una controtendenza rispetto agli anni Cinquanta in cui il fenomeno suicidario era più significativo nell’età anziana. E’ stato stimato che i suicidi tra i giovani dai 15 ai 19 anni sono aumentati del 245 per cento tra il 1956 e il 1994 (Peters et al. 1998). Il suicidio giovanile è attualmente la seconda causa di morte nella fascia di età dai 15 ai 24 anni e costituisce un grave problema di sanità pubblica.

Gli individui che tentano il suicidio hanno un alto rischio di effettuare ulteriori tentativi di suicidio, spesso con esito letale; alcune strategie di sostegno per coloro che hanno tentato il suicidio sono di grande valore, primo fra tutte incontri programmati con follow-up regolari; deve inoltre esserci una valida rete di collegamento tra i servizi psichiatrici in modo tale da riconoscere e gestire questi individui globalmente.

La suicidologia, lo studio dell’atto suicidario e della sua prevenzione

Il filo che lega tutti i fattori di rischio per il suicidio è l’incertezza e la perdita di speranza per il futuro; ma il suicidio si può provare a prevenire se si riesce a intervenire sulla sofferenza psicologica e a ridare speranza ai soggetti in crisi.

Il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere alleviato quei soggetti testimonierebbero la loro voglia di vivere.
La suicidologia può essere definita come la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio e alla sua prevenzione. Il termine (e il concetto) fu usato per primo usato da Edwin Sheneidman (1964). La suicidologia diversamente da altre scienze comportamentiste non include meramente lo studio del suicidio, ma ne enfatizza la prevenzione.

Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l’elemento di base del suicidio è il dolore mentale insopportabile (Shneidman 1993), che chiama psychache, che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce le domande chiave che possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un insopportabile dolore mentale, allora il compito principale di chi deve occuparsi di un individuo suicida che soffre a tal punto è quello di alleviare questo dolore (Shneidman 2004; 2005). Infatti, si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierà di vivere.

Shneidman, inoltre, considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che da essa deriva, a essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalità e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati e compresi e ricevere conforto. Shneidman ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione”.

La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico.
Nella concettualizzazione di Shneidman, il suicidio è il risultato di un dialogo interiore in cui la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo, alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile. Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita.

Nel panorama più recente del nostro Paese, la comprensione del suicidio richiede uno sguardo che sia sia quantitativo sia qualitativo. I dati più aggiornati confermano che in Italia si registrano ancora circa 4.000 morti per suicidio ogni anno. Ad esempio, nel 2021 si sono registrati 3.870 casi, con un aumento del 16 % fra i giovani tra 15 e 34 anni rispetto al 2020. La distribuzione per fasce di età e regioni segnala che le zone con minore densità abitativa o con minor supporto sociale mostrano tassi più elevati, confermando il legame tra contesto sociale ed esito suicidario.

Dal punto di vista clinico-psicologico, è utile ricordare che il suicidio non ha una causa unica né immediata: si tratta piuttosto dell’esito di un processo molteplice, che vede intrecciarsi vulnerabilità individuali (biologiche, psichiche, di personalità), eventi di vita avversi (perdita, disoccupazione, isolamento), fattori relazionali (solitudine, difficoltà di comunicazione) e contesti socio-economici fragili (crisi, disoccupazione, mancanza di reti). Secondo la prospettiva di Edwin Shneidman, al centro di tutto sta un dolore mentale insopportabile – la “psychache” – che porta la persona a considerare il suicidio non come desiderio attivo di morire, ma come unica via percepita di fuga da una sofferenza che non trova sollievo. Questo quadro clinico richiede che il terapeuta o il contesto di supporto sappiano riconoscere non solo i sintomi (depressione, ansia, abuso di sostanze) ma anche l’esperienza soggettiva del dolore: la perdita di speranza, l’incapacità di immaginare un futuro, la visione tunnel che restringe le opzioni. A livello sociale, il suicidio ci mostra la fragilità di un tessuto relazionale: il ristagno nelle solitudini, la difficoltà a chiedere aiuto, la stigmatizzazione del disagio mentale amplificano il rischio. La crisi economica del 2008, ad esempio, ha evidenziato che tra gli uomini in età lavorativa si è registrato un aumento significativo dei tassi di suicidio: si pensi al ruolo identitario del lavoro, al fallimento percepito, al senso di inutilità quando viene meno il ruolo produttivo.

È quindi fondamentale che gli interventi di prevenzione non restino confinati all’ambito clinico-psichiatrico, ma si estendano a livello comunitario, sociale, economico: promuovendo reti di supporto, contrastando l’isolamento, rilanciando la speranza nei soggetti che vivono in contesti ad alto rischio, e soprattutto offrendo follow-up continuo per chi ha già manifestato ideazione o tentativo. Il suicidio resta un’emergenza silenziosa che chiede un’azione integrata, riconoscendo che dietro ogni cifra c’è una persona che ha provato a “scegliere” la morte perché non ha saputo scegliere altro.

 

Il suicidio, un fenomeno multifattoriale

Il suicidio è un fenomeno multifattoriale: non c’è un’unica causa che lo spiega in maniera diretta. Nonostante si faccia spesso riferimento ai disturbi mentali e psichiatrici, è necessario precisare che sono fattori importanti ma non esclusivi per il rischio di suicidio: fortunatamente la maggior parte delle persone che soffrono di disturbi mentali, con disturbo depressivo maggiore o altro, non si suicida. Eventi di vita avversi uniti a specifiche connotazioni della personalità possono creare una sofferenza estrema per la causa il suicidio, dopo lungo pensare, diviene la “migliore opzione” per risolvere quel dolore.

Quello che è importante sottolineare è che, al di là delle cause, dello stato civile, dell’età, del livello di istruzione e dello status sociale, una persona pensa al suicidio quando vive un dolore mentale e una sofferenza che diventa insopportabile. Questo dolore è fatto da emozioni negative che lede l’individuo, lo destabilizza, fino a fargli perdere una visione prospettica positiva nei confronti del futuro, fino ad arrivare alla conclusione (che non è mai estemporanea) che sia meglio morire piuttosto che continuare a vivere in quel mondo.

Secondo il Prof. Maurizio Pompili, la scelta di morire “non non è mai profilata in modo estemporaneo”, cioè,
il tema del suicidio è scartato dal soggetto tante e tante volte. Tuttavia, diventa la “migliore soluzione” quando le altre opzioni hanno fallito e non hanno dato risposte soddisfacenti alla risoluzione della sofferenza che vive.
Il suicidio è in molti casi qualcosa di meditato e riflettuto perché è un argomento profondamente intimo e centrale. Nel momento in cui la persona prende la decisione di voler morire, a quel punto il gesto conclusivo può essere qualcosa di impulsivo. Ma si arriva lì dopo un dialogo interiore, non un impulso improvviso.

 

Prevenzione: opportunità e limiti di ciò che si può vedere

Molti segnali vengono spesso citati: perdita di interesse per la vita quotidiana, cambiamenti improvvisi nel sonno o nell’alimentazione, uso di sostanze, comportamenti rischiosi, distacco dalle relazioni, sistemazione dei propri affari personali, improvvise oscillazioni dell’umore.

Sono indicazioni utili, ma non sempre presenti. Alcune persone non mostrano segnali visibili, altre li mostrano ma vengono interpretate come “stanchezza” o “periodi no”. Per questo la prevenzione richiede un approccio multilivello: sanitario, sociale, familiare, comunitario.

Serve una rete coordinata tra servizi, maggiore accessibilità ai percorsi psicologici, continuità di cura per chi ha già compiuto tentativi o espresso ideazione, e un lavoro culturale per ridurre stigma e isolamento.

La prevenzione si basa proprio sul riconoscimento dei segnali di allarme, vale a dire di condizioni che permettono di identificare precocemente i soggetti a rischio.
I segnali di allarme da monitorare possono essere eclatanti, evidenti, per esempio: l’individuo inizia a parlare di non farcela più, di non vedere più soluzioni, di non avere più speranza nella vita né nel futuro. Possono esserci dei cambiamenti delle abitudini del sonno, o altri cambiamenti delle abitudini in generali; utilizzare droghe o bere alcool in modo eccessivo; allontanarsi dagli affetti, dagli amici e dalla precedente vita sociale; cimentarsi in atti molto pericolosi (come una guida spericolata) che mettono a rischio la vita; oppure mettendo a posto i loro affari, magari facendo anche testamento; regalando degli oggetti ai quali tengono molto – una collezione, un gioiello. Inoltre, possono verificarsi dei cambiamenti d’umore repentino. Questi sono dovuti al fatto che la persona che pensa al suicidio è molto ambivalente: perché nessuno vorrebbe mai morire. Le persone che pensano al suicidio non vorrebbero morire, ma vorrebbero vivere, ammesso che qualcuno li aiuti a ridurre i livelli di sofferenza, ad avere ancora speranza nel futuro. Nel momento che il soggetto ha deciso di morire, si sente sollevato e sembrerebbe stare meglio. In realtà non è un reale miglioramento. Perché è il frutto di una decisione aberrante, quello di togliersi la vita.

Nonostante la prevenzione del suicidio sia stata individuata come obiettivo prioritario dai maggiori organismi internazionali, solo pochi Paesi nel mondo hanno sviluppato una strategia nazionale per la prevenzione del suicidio e l’Italia non è ancora tra questi. Politiche di prevenzione efficaci devono prevedere un approccio di tipo multisettoriale che tenga conto dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, una strategia nazionale di prevenzione risulterà essere più efficace se implementata sulla base dell’individuazione dei principali fattori di rischio a livello locale con interventi mirati anche a livello di comunità.

Il suicidio si conferma come la risultante di molti fattori (genetici, biologici, individuali e ambientali) e, come indicato anche dall’OMS, la malattia psichiatrica non è l’unico fattore di rischio, pertanto le politiche di prevenzione del suicidio non possono essere confinate al solo ambito sanitario ma devono tener conto anche dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, devono essere considerati anche gli effetti destabilizzanti sulle persone con le quali il suicida era in relazione; i survivor, cioè coloro che sono stati colpiti da un lutto in seguito ad un suicidio, presentano più frequentemente senso di colpa, e sentimenti di rifiuto e abbandono rispetto a chi ha perso qualcuno per cause naturali.

Parlare di prevenzione del suicidio è certamente utile e importante, tuttavia, i decaloghi che vengono proposti, o l’elenco di semplici domande da fare per aiutare un amico o un parente che ci sembra “in difficoltà”, possono banalizzare e ipersemplificare qualcosa di complesso e spesso imprevedibile che non corrisponde ai presunti segnali di allarme, qualcosa di cui occuparsi a livello sociale prima ancora che individuale.

La verità è che l’ideazione suicidaria è profondamente complessa da indagare e da individuare, e dunque prevenire a livello del singolo individuo.

 

Il 10 settembre di ogni anno è la giornata mondiale di sensibilizzazione sul tema del suicidio e della prevenzione del suicidio.

 

Carissimo,

sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare.

Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so.

Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere.

Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.

(La lettera di addio di Virginia Woolf al marito Leonard, 28 marzo 1941.)

 

Riferimenti bibliografici

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