“Che sia consapevole o meno, chi compie un suicidio ti trascina con sé. Quel giorno avete spiccato insieme il volo verso il vuoto, e se per l’altro corpo non c’è stato nulla da fare, il tuo se l’è cavata senza un graffio. È il tuo spirito a essere tumefatto. In modi differenti, nessuno dei due è scampato. Non ti sei mai sentito così solo. Non sei mai stato così solo.”
(Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta)
La narrazione sul suicidio. L’enfasi sulla prevenzione del suicidio. Il rischio della responsabilizzazione di chi resta, di chi si prende cura, dei famigliari e del personale medico e assistenziale (vedi articolo allegato).
Parlare di prevenzione del suicidio è certamente utile e importante, tuttavia, i decaloghi che vengono proposti, o l’elenco di semplici domande da fare per aiutare un amico o un parente che ci sembra «in difficoltà», possono banalizzare, ipersemplificare qualcosa di complesso e spesso imprevedibile e non corrispondente ai presunti segnali di allarme (come dimagrimento improvviso, insonnia, mancanza di interessi, anedonia, ecc).
Questi tentativi di informare su come fare prevenzione del suicidio, può generare in chi resta, una eccessiva responsabilizzazione, e dunque acuire il senso di colpa che è molto spesso presente nei survivors, che ogni giorno ripercorrono e scandagliano i propri ricordi nel tentativo di cambiare la direzione dei fatti, e di trovare un segnale non colto, una propria possibile colpa, una parola sbagliata, un gesto inadeguato.
La verità è che l’ideazione suicidaria è profondamente complessa da indagare e da individuare, dunque prevenire a livello del singolo individuo.
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), pubblicate ad aprile 2019 nel rapporto “World health statistics 2019: monitoring health for the SDGs, sustainable development goals” tra il 2000 e il 2016, in tutto il mondo, i tassi grezzi di mortalità per suicidio sono diminuiti del 16% negli uomini e del 20% nelle donne.
I dati italiani
In Italia si registrano ogni anno circa 4000 morti per suicidio. Poiché il suicidio è un evento estremamente raro nell’infanzia, i tassi vengono calcolati prendendo come riferimento la popolazione di 15 anni e più. Secondo i dati ISTAT della “Indagine sulle cause di morte”, nel 2016 (ultimo anno per il quale i dati sono attualmente disponibili) nel nostro Paese si sono tolte la vita 3780 persone. Il 78,8% dei morti per suicidio sono uomini. Il tasso (grezzo) di mortalità per suicidio per gli uomini è stato pari a 11,8 per 100.000 abitanti mentre per le donne e 3,0 per 100.000. I tassi di mortalità per suicidio sono più elevati nel Nord Italia e, in particolare per gli uomini, nelle Regioni del Nord-Est. Sia per gli uomini che per le donne i valori più bassi del tasso di suicidio si registrano nelle Regioni del Sud-Italia. I tassi di suicidio tra gli uomini sono inoltre inversamente proporzionali alla densità di popolazione, verosimilmente in quanto gli uomini sono più vulnerabili a fattori sociali ed economici avversi associati a una minore densità di popolazione.
L’analisi dei tassi età-specifici riferita all’anno 2016 mostra che per gli uomini il tasso aumenta costantemente raggiungendo un valore di quasi 20 casi ogni 100.000 abitanti tra gli anziani di età superiore ai 70 anni. Anche per le donne i tassi aumentano con l’età e il tasso raggiunge un massimo di oltre 4 casi ogni 100.000 tra le ultra70enni. Quasi l’80% dei morti per suicidio sono uomini, con un rapporto di genere (uomini/donne) che è andato aumentando linearmente nel tempo, passando da 2,1 nel 1980 a 3,6 nel 2016. I tassi di mortalità per suicidio sono più elevati tra gli anziani, ma è tra i giovani che il suicidio è, analogamente a quanto si registra a livello mondiale, una delle prime cause di morte con una grande differenza nei livelli di mortalità tra ragazzi e ragazze.
Il trend storico del tasso di mortalità per suicidio mostra per l’Italia una riduzione a partire dalla metà degli anni Ottanta che si accentua, soprattutto per gli uomini, nella seconda metà degli anni Novanta. Tuttavia, dopo il minimo storico raggiunto negli anni 2006 e 2007, questa tendenza alla riduzione ha subito un arresto. Nel 2008, anno in cui cominciano a farsi manifesti gli effetti della crisi economico-finanziaria, analogamente a quanto osservato in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, anche in Italia il tasso comincia ad aumentare tra gli uomini nelle classi di età centrali (tra i 25-30 anni e i 65-69 anni). L’aumento della mortalità per suicidio tra gli uomini nelle fasce di età centrali prosegue fino al 2012. In seguito alla crisi economico-finanziaria del 2008 non si registra invece un aumento di rischio suicidario tra gli uomini “anziani” e tra le donne si registrano variazioni del tasso molto più contenute. La crisi economico-finanziaria del 2007-2008 è stata considerata la più severa recessione che ha colpito l’Europa dopo la seconda guerra mondiale, paragonabile per alcuni aspetti (quali ad esempio la riduzione dei consumi di beni non durevoli) alla “grande depressione” del 1929. La minor resilienza degli uomini di fronte ad “eventi critici” è anche rilevabile dal fatto che i tassi età-specifici di mortalità per suicidio aumentano con l’età sia per gli uomini che per le donne, ma per gli uomini si osserva un aumento esponenziale a partire dai 65 anni di età in corrispondenza con l’età al pensionamento.
Il filo che lega tutti i fattori di rischio per il suicidio è l’incertezza e la perdita di speranza per il futuro; ma il suicidio si può prevenire se si riesce a intervenire sulla sofferenza psicologica e a ridare speranza ai soggetti in crisi.
Il suicidio si conferma come la risultante di molti fattori (genetici, biologici, individuali e ambientali) e, come indicato anche dall’OMS [14], la malattia psichiatrica non è l’unico fattore di rischio, pertanto le politiche di prevenzione del suicidio non possono essere confinate al solo ambito sanitario ma devono tener conto anche dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, devono essere considerati anche gli effetti destabilizzanti sulle persone con le quali il suicida era in relazione; i survivor, cioè coloro che sono stati colpiti da un lutto in seguito ad un suicidio, presentano più frequentemente senso di colpa, e sentimenti di rifiuto e abbandono rispetto a chi ha perso qualcuno per cause naturali.
Nonostante la prevenzione del suicidio sia stata individuata come obiettivo prioritario dai maggiori organismi internazionali, solo pochi Paesi nel mondo hanno sviluppato una strategia nazionale per la prevenzione del suicidio e l’Italia non è ancora tra questi. Politiche di prevenzione efficaci devono prevedere un approccio di tipo multisettoriale che tenga conto dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, una strategia nazionale di prevenzione risulterà essere più efficace se implementata sulla base dell’individuazione dei principali fattori di rischio a livello locale con interventi mirati anche a livello di comunità.
Un milione di suicidi ogni anno nel mondo è una perdita di vite umane inaccettabile e per la quale poco ancora si fa rispetto ad altre problemi di sanità pubblica. Poco serve a rammentare che nel mondo ogni 40 secondi si verifica un suicidio e ogni tre secondi si registra un tentativo di suicidio. Inoltre si è assistito ad un’allarmante crescita dei tassi di suicidio tra i giovani, segnando una controtendenza rispetto agli anni cinquanta in cui il fenomeno suicidario era più serio nell’età anziana.
Gli individui che tentano il suicidio hanno un alto rischio di effettuare ulteriori tentativi di suicidio, spesso con esito letale; alcune strategie di sostegno per coloro che hanno tentato il suicidio sono di grande valore, primo fra tutte incontri programmati con follow-up regolari; deve inoltre esserci una valida rete di collegamento tra i servizi psichiatrici in modo tale da riconoscere e gestire questi individui globalmente.
Il suicidio e’ stato da sempre stigmatizzato e il ruolo dello stigma rimane uno dei principali problemi nell’esecuzione degli interventi preventivi. P
E’ stato stimato che i suicidi tra i giovani dai 15 ai 19 anni sono aumentati del 245 per cento tra il 1956 e il 1994 (Peters et al. 1998). Il suicidio giovanile è attualmente la seconda causa di morte nella fascia di età dai 15 ai 24 anni e costituisce un allarmante problema di sanità pubblica.
E’ difficile avere una stima esatta del numero di suicidi e tentativi di suicidio in questa fascia di età. Sia per la scarsa accuratezza dei certificati di morte e sia per l’impossibilità, in molti casi, di valutare l’effettiva letalità di un tentativo di suicidio. Da alcune indagini nella popolazione giovanile è emersa infatti la difficoltà da parte degli intervistati di distinguere tra un tentativo di suicidio (suicidio non riuscito per cause indipendenti dalla volontà del soggetto) e un gesto di autolesionismo (nel quale non vi è l’intenzione di morire).
I metodi impiegati per togliersi la vita variano nelle diverse parti del mondo a seconda della disponibilità dei mezzi letali. In alcune aree geografiche è molto frequente il suicidio con ingestione di pesticidi mentre in altre aree prevale l’intossicazione da farmaci e con gas di scarico di automobili. I maschi solitamente utilizzano metodi più letali anche se negli ultimi anni si registra una analogo orientamento tra le femmine.
Il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere alleviato quei soggetti testimonierebbero la loro voglia di vivere.
La suicidologia può essere definita come la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio e alla sua prevenzione. Il termine (e il concetto) fu usato per primo usato da Edwin Sheneidman (1964). La suicidologia diversamente da altre scienze comportamentiste non include meramente lo studio del suicidio, ma enfatizza la prevenzione dell’atto letale; in altre parole incorpora interventi clinici appropriati per prevenire il suicidio, una caratteristica non sempre esplicitata nella miriade di contributi sul tema. Il focus della suicidologia non è necessariamente il suicidio ma anche tutti i comportamenti suicidari.
Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale insopportabile (Shneidman 1993a), che chiama psychache, che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce le domande chiave che possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un insopportabile dolore mentale, allora il compito principale di chi deve occuparsi di un individuo suicida che soffre a tal punto è quello di alleviare questo dolore (Shneidman 2004; 2005). Infatti, si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere.
Shneidman (1993a,b) inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che da essa deriva, ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalità e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati e compresi e ricevere conforto. Shneidman (1985) ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione”.
La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto che si suicida nel quale la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura, l’ansia sono caratteristiche facilmente identificabili. L’individuo ha dunque necessità di porre fine a tale stato; il rischio di suicidio diviene grave, quando quel soggetto lo considera come la migliore ed unica soluzione per porre fine a quell’immenso dolore psicologico.
Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile. Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita.
Il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio.
Il suicidio è presente in tutte le fasce d’età, con una tendenza a crescere con l’aumento degli anni. Per entrambi i generi, dunque, la mortalità per suicidio cresce all’aumentare dell’età. Ma ciò che sorprende è – negli ultimi 50 anni circa – l’aumento proporzionalmente maggiore dei suicidi nelle fasce giovanili. Tanto che, nella fascia 15-29 anni, il suicidio è la terza causa di morte a livello globale, e la prima causa di morte in Europa. Parlando di genere, i dati sono netti: il rapporto tra maschi e femmine è di 3 a 1. La distribuzione geografica dei suicidi non è identica. Sia a livello italiano che globale. Ci sono dei Paesi a maggior rischio di suicidio tra la popolazione. Ad esempio quelli del Nord Europa, i Paesi asiatici e alcune Nazioni in via di sviluppo.
In Italia c’è un gradiente Nord – Sud: le Regioni settentrionali sono a più alto rischio suicidio del Meridione. Fa eccezione la Sardegna che – pur non stando al Nord – è una Regione con alti tassi di suicidio.
Il suicidio è un fenomeno multifattoriale: non c’è un’unica causa che lo spiega in maniera diretta. Nonostante si faccia spesso riferimento ai disturbi mentali e psichiatrici, è necessario precisare che sono fattori importanti ma non esclusivi per il rischio di suicidio: fortunatamente la maggior parte delle persone che soffrono di disturbi mentali, con disturbo depressivo maggiore o altro, non si suicida. Eventi di vita avversi uniti a specifiche connotazioni della personalità possono creare una sofferenza estrema per la causa il suicidio, dopo lungo pensare, diviene la migliore opzione per risolvere quel dolore.
Quello che è importante sottolineare è che, al di là delle cause, dello stato civile, dell’età, del livello di istruzione e dello status sociale, il soggetto pensa al suicidio quando vive un dolore mentale e una sofferenza che diventa insopportabile. Questo dolore è fatto da emozioni negative che lede l’individuo, lo destabilizza, fino a fargli perdere una visione prospettica positiva nei confronti del futuro, fino ad arrivare alla conclusione – che non è mai profilata in modo estemporaneo né di primo approccio al problema – che sia meglio morire che continuare a vivere in quel mondo.
Secondo il Prof. Maurizio Pompili, la scelta di morire “non non è mai profilata in modo estemporaneo”, cioè,
il tema del suicidio è scartato dal soggetto tante e tante volte. Tuttavia, si configura come la migliore soluzione quando le altre opzioni hanno fallito: non hanno dato risposte soddisfacenti alla risoluzione della sofferenza che vive.
Il suicidio è in molti casi qualcosa di meditato e riflettuto perché è un argomento profondamente intimo e centrale. Nel momento in cui la persona prende la decisione di voler morire, a quel punto il gesto conclusivo può essere qualcosa di impulsivo. Ma si arriva lì dopo un dialogo interiore, non un impulso improvviso.
La prevenzione si basa proprio sul riconoscimento dei segnali di allarme, vale a dire di condizioni che permettono di identificare precocemente i soggetti a rischio.
I segnali di allarme da monitorare possono essere eclatanti, evidenti, per esempio: l’individuo inizia a parlare di non farcela più, di non vedere più soluzioni, di non avere più speranza nella vita né nel futuro. Possono esserci dei cambiamenti delle abitudini del sonno, o altri cambiamenti delle abitudini in generali; utilizzare droghe o bere alcool in modo eccessivo; allontanarsi dagli affetti, dagli amici e dalla precedente vita sociale; cimentarsi in atti molto pericolosi (come una guida spericolata) che mettono a rischio la vita; oppure mettendo a posto i loro affari, magari facendo anche testamento; regalando degli oggetti ai quali tengono molto – una collezione, un gioiello. Inoltre, possono verificarsi dei cambiamenti d’umore repentino. Questi sono dovuti al fatto che la persona che pensa al suicidio è molto ambivalente: perché nessuno vorrebbe mai morire. Le persone che pensano al suicidio non vorrebbero morire, ma vorrebbero vivere, ammesso che qualcuno li aiuti a ridurre i livelli di sofferenza, ad avere ancora speranza nel futuro. Nel momento che il soggetto ha deciso di morire, si sente sollevato e sembrerebbe stare meglio. In realtà non è un reale miglioramento. Perché è il frutto di una decisione aberrante, quello di togliersi la vita.
Carissimo,
sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare.
Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so.
Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere.
Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.
(La lettera di addio di Virginia Woolf al marito Leonard, che si lasciava annegare nel fiume vicino a casa, il 28 marzo 1941.)
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