Il lutto è parte della vita di ognuno. È un’esperienza universale, eppure intima, complessa, soggettiva. Quando perdiamo qualcuno che amiamo, non affrontiamo soltanto l’assenza dell’altro: affrontiamo la trasformazione di noi stessi, dei nostri ruoli, delle nostre abitudini, del nostro modo di stare nel mondo.

Come scrive Neimeyer (2013), il lutto è un processo di ricostruzione di significato: la morte mette in crisi il mondo interno, destabilizza i legami, interroga identità e consapevolezze. Non è un evento da superare, ma un processo da attraversare. E mentre la società ci chiede di tornare presto a “funzionare”, chi vive un lutto sa che le emozioni non obbediscono a questi comandi esterni.

Il lutto: un processo, non una parentesi

 

La morte si subisce. Il lutto si costruisce.

Contrariamente all’idea diffusa di “fasi” rigide e standardizzate, il lutto è un movimento irregolare, pulsante, ondulatorio. Non procede linearmente e non segue scadenze. Nei primi momenti, prevalgono shock, incredulità, torpore emotivo. Poi emergono tristezza, nostalgia, rabbia, senso di colpa, insieme al bisogno di cercare chi non c’è più nei ricordi, negli oggetti, nei gesti quotidiani.

Ogni lutto comprende una perdita primaria (la morte) e molte perdite secondarie: una routine, un ruolo, un futuro immaginato, un luogo simbolico nella propria identità. Le teorie più recenti non parlano più di “superare il lutto”, ma di integrare la perdita, costruendo un nuovo legame interiore con chi non c’è più.

Nel suo Va bene essere tristi,  Megan Devine, psicoterapeuta che da anni si occupa di lutto e lutto traumatico, ci dice: Non dobbiamo guarire dal dolore. Dobbiamo imparare a conviverci. Il dolore è una forma d’amore che non ha più casa.

Quando il lutto si complica: il disturbo da lutto prolungato

 

La maggior parte delle persone, dopo un lutto, col passare del tempo, trova una forma di adattamento. Ma nel 5–10% dei casi (Lundorff et al., 2020) la sofferenza persiste e si intensifica, configurando un disturbo da lutto prolungato (ICD-11; DSM-5-TR).

I sintomi principali includono:

  • nostalgia e desiderio intenso per il defunto,

  • incredulità e difficoltà ad accettare la realtà della morte,

  • dolore emotivo persistente,

  • evitamento dei luoghi o dei ricordi,

  • senso di colpa, inutilità o identità “spezzata”,

  • difficoltà a immaginare un futuro.

I fattori di rischio individuati dalla meta-analisi di Buur et al. (2024) includono:

  • morte improvvisa o violenta,

  • perdita di partner o figli,

  • stile di attaccamento ansioso,

  • sintomi depressivi precedenti,

  • scarso supporto sociale,

  • situazione socioeconomica fragile.

Tra tutti i tipi di lutto, il lutto per suicidio è tra quelli con maggiore probabilità di complicarsi.

Il lutto per suicidio: un dolore che cambia forma alla vita di chi resta 

 

Il lutto per suicidio è un terremoto emotivo. È una morte che non si limita a spezzare un legame: mette in discussione tutto ciò che il sopravvissuto pensava di sapere sulla persona amata, su sé stesso e sulla vita.


Che sia consapevole o meno, chi compie un suicidio ti trascina con sé. Quel giorno avete spiccato insieme il volo verso il vuoto, e se per l’altro corpo non c’è stato nulla da fare, il tuo se l’è cavata senza un graffio. È il tuo spirito a essere tumefatto. In modi differenti, nessuno dei due è scampato. Non ti sei mai sentito così solo. Non sei mai stato così solo.” (Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta)

Chi sono i survivors

 

Il termine survivors indica tutte le persone segnate dal suicidio di una persona significativa. Non solo familiari diretti: anche amici, colleghi, partner, compagni di scuola, insegnanti, professionisti coinvolti.

Shneidman stima almeno sei survivors per ogni suicidio. I dati attuali indicano che il numero reale è molto più alto. Alcuni studi (Jordan & McIntosh, 2011) evidenziano nei survivors una sintomatologia tipica, come:

  • colpa intensa e persistente,

  • rabbia verso sé stessi, il defunto o i professionisti coinvolti,

  • vergogna e stigma,

  • ritiro sociale,

  • flashback e immagini intrusive,

  • sintomi di PTSD (disturbo da stress post traumatico),

  • rischio aumentato di depressione e comportamenti suicidari,

  • difficoltà di reinserimento nella vita quotidiana.

L’APA  (american psychological association) considera il suicidio un evento catastrofico per chi resta.

Nel 2021 nell’Unione Europea ci sono state 47.346 morti per suicidio, pari a circa 0,9 % di tutti i decessi, con un tasso medio di 10,2 per 100.000 persone. Alcune stime suggeriscono che in tutto il mondo siano oltre 100 milioni di persone all’anno che diventano survivors da suicidio, considerando l’effetto su amici, conoscenti, comunità.

Oltre 1 milione di morti l’anno nel mondo. Un suicidio ogni 40 secondi. In Italia, circa 4.000 suicidi all’anno (il 78,8% uomini, un dato su cui da sempre si cerca di riflettere a livello psicologico e sociale).

È la terza causa di morte tra i 15 e i 44 anni. I tentativi sono stimati 10 volte superiori ai suicidi riusciti. Lo stigma fa sì che molti casi non vengano registrati.

Il lutto per suicidio presenta maggiori probabilità rispetto ad altri tipi di lutto di sfociare in lutto complicato. I partner sopravvissuti al suicidio mostrano rischi significativamente più alti di morte per suicidio rispetto alla popolazione generale: uno studio ha evidenziato un rischio 6-8 volte superiore.

(Per approfondire attraverso i dati sul suicidio in Italia e nel mondo, puoi leggere qui: https://dariatinagli.it/volevo-solo-non-soffrire-piu-quando-il-suicidio-sembra-lunica-possibilita-per-non-sentire-il-dolore/)

 

Perché? Una domanda senza risposta 

 

La domanda più difficile, più dolorosa, più inaccessibile è sempre la stessa: perché? Perché non l’ho visto? Perché non mi ha chiamato? Perché non sono riuscito a fermarlo?

Il survivor riesamina ogni singolo dettaglio, ripercorre le ultime conversazioni, ricostruisce mentalmente scenari alternativi, come se potesse cambiare retroattivamente la realtà. La mente di un survivor resta intrappolata in questo tentativo di riscrivere continuamente il passato. Questa ricerca è naturale, ma può trasformarsi in una forma di autocritica senza via di scampo.

Perché la verità è che molti suicidi non presentano segnali riconoscibili, né prevedibili. In questo senso, le campagne di prevenzione, se mal comunicate, rischiano di trasformarsi in messaggi colpevolizzanti per chi resta.

Le emozioni dei survivors: colpa, rabbia, vergogna, solitudine

 

Colpa

Il survivor si accusa per ciò che non ha fatto o per ciò che crede di aver sbagliato. È un’emozione comprensibile: nel tentativo di dare senso alla tragedia, la mente preferisce accusare sé stessa piuttosto che accettare l’impensabile.

Rabbia

Rabbia verso il defunto (“Mi hai lasciato”/”Non ha pensato a me”), verso sé stessi, verso altri familiari o professionisti. È una rabbia spesso taciuta, perché socialmente considerata inammissibile verso chi è morto.

Vergogna e stigma

Il suicidio è ancora circondato da tabù, mezze frasi, sguardi imbarazzati. Molti survivors smettono di parlare del defunto perché temono giudizi o pietismi. Ma chi sta attraversando un lutto, desidera più di tutto parlare di chi non c’è più, pronunciare il suo nome, ricordarlo.

Solitudine

Il ritiro è un tentativo di protezione. Ma porta con sé isolamento e mancanza di sostegno sociale, che è uno dei fattori più critici nella complicazione del lutto.

 

Come sostenere i survivors

 

Il dolore non vuole spiegazioni, vuole connessione. Non c’è una frase giusta. Non c’è una logica consolatoria che possa riscrivere ciò che è accaduto. Non c’è un modo elegante di spiegare il caos, l’assenza, il trauma, la paura, l’ingiustizia. Il dolore chiede presenza. Chiede qualcuno che non scappi. Chiede un testimone che resti, senza aggiustare. Per chi sopravvive, questo è spesso un bisogno negato: la possibilità di non doversi difendere dal proprio dolore mentre soffre.

Cosa non dire
  • “Ma aveva dato qualche segnale?”

  • “Non vorrebbe vederti così.”

  • “Devi essere forte.”

  • “È tutto parte di un disegno.”

  • “E’ una scelta da rispettare”/ E’ una scelta coraggiosa”
  • “Ora è in un posto migliore.”

Dietro queste frasi c’è un messaggio implicito terribile: “Il tuo dolore è sbagliato, non devi sentirti così”.

Cosa dire

  • “Sono qui con te, ti ascolto.”

  • “Quello che provi ha senso.”

  • “Non è colpa tua.”

  • “È ingiusto, ed è normale che tu ti senta così.”

  • “Come posso esserti accanto oggi?”

Il survivor non cerca spiegazioni, non cerca consigli. Cerca presenza, ascolto, accoglienza.

Il lutto nella stanza di terapia

 

Non esistono linee guida specifiche dedicate ai survivors, ma gli interventi più efficaci derivano dal trattamento del trauma e del lutto prolungato:

  • CBT focalizzata su lutto e trauma

  • Terapia del lutto complicato

  • EMDR (per immagini traumatiche)

  • DBT (per la regolazione emotiva e il rischio suicidario)

  • Farmacoterapia quando ansia, insonnia o depressione sono gravi

  • Psicoeducazione e normalizzazione del dolore emotivo

 

Il lavoro clinico lavora su componenti come:

  • legittimare emozioni complesse come colpa, rabbia, vergogna,

  • aiutare a ridefinire la storia degli eventi senza autocritica,

  • lavorare sul trauma e sulla ruminazione,

  • creare rituali che permettano connessione e separazione,

  • ricostruire un legame interno con chi non c’è più,

  • sostenere la persona nel ripensare il proprio futuro.

 

Ricostruire una vita dopo il suicidio: ciò che è possibile e ciò che non lo è

 

Accettare un lutto non significa accettare la morte. Significa accettare che la vita, da quel momento, cambia per sempre. L’accettazione non è un punto di arrivo, ma un processo che implica alcune tappe:

  • smettere di lottare contro la realtà,

  • dare un posto al dolore,

  • riconoscere che l’identità è cambiata,

  • immaginare un nuovo capitolo di vita,

  • costruire un legame interno, personale, autentico con chi non c’è più.

Come scrive Long Litt Woon: Di lui non mi restava altro che il dolore. Non volevo lenirlo, volevo sentirlo tutto, perché era l’ultima cosa che mi legava a lui.
Anche questo è lutto: proteggere ciò che resta.

Continuare a vivere dentro ciò che resta

 

Il lutto ridisegna la vita. Il lutto per suicidio la riscrive da capo.

Chi resta attraversa una terra nuova, fatta di domande senza risposta, di legami interrotti e di un dolore che non assomiglia a nessun altro. Ma dentro questo dolore, lentamente, può nascere qualcosa: una capacità nuova di ascolto, un modo più profondo di amare, una consapevolezza diversa del tempo e dei legami.

Come ricorda Megan Devine: per trovare una vita che tu possa sentire autentica e vera, dobbiamo dire la verità: tutto è ingiusto quanto sembra. Da lì possiamo cominciare.

Questo è il lavoro del lutto. Questo è il lavoro della psicoterapia del lutto. E questo è, soprattutto, il lavoro umano di chi resta.

Quando la perdita avviene è come se il tempo si frammentasse. I survivors vivono e rivivono la scena della morte o il suo sapere, il rimuginio del “come è potuto succedere?”, il peso del “perché mi ha lasciato?” o “perché non l’ho visto?” la paura del futuro: “come faccio ad andare avanti?”, spesso una riduzione della finestra di tolleranza emotiva: l’amigdala è attivata, la memoria è frammentata, il sistema di allerta è costantemente accesso.

Il dolore è un’esperienza che chiede onestà, tempo, spazio. Non si tratta di “superare” la perdita, ma di imparare a vivere con ciò che è accaduto. Non si tratta di dire “non doveva succedere”, ma di accettare che è successo, e che la vita ora è cambiata. Non si tratta di nascondere la vergogna, il senso di colpa, la rabbia, ma di dargli voce. Non si tratta di standardizzare tempi e modi del lutto, ma di permettere un percorso individuale e relazionale.

 

Essere un survivor non significa uscire illesi o diventare eroi. Significa restare presenti al proprio dolore, restare vivi, nonostante. Vuol dire riconoscere che la perdita lascia un vuoto che non può essere riempito come “prima”, permettersi di sentirsi vulnerabili, fragili, in colpa, arrabbiati, trovare, a piccoli passi, un modo di esistere che includa la memoria, il legame, la trasformazione, chiedere aiuto, costruire una rete di supporto, tenere conto della particolarità del lutto da suicidio. Non è un ritorno alla vita di prima. È una soglia: ciò che eri e ciò che sarai.

Le persone che chiamiamo survivors non sono semplicemente sopravvissute a un evento. Sono sopravvissute alla trasformazione radicale del modo in cui abitano il mondo.

Megan Devine, nel suo libro Va bene essere tristi, ci ricorda qualcosa che spesso dimentichiamo: non tutto ciò che si spezza deve essere riparato, e non tutto ciò che ci ferisce ha bisogno di una consolazione immediata. A volte il dolore deve solo essere visto, nominato e rispettato. Il dolore non è un errore da correggere, ma una parte della realtà che chiede spazio, linguaggio e dignità. Per i survivors, spesso, questo spazio non c’è.

Il mondo tende a chiamare “resilienza” ciò che in realtà è una forma di sopravvivenza emotiva faticosa, non sempre scelta. Molti survivors vivono una condizione ambigua: dovrei sentirmi grato, perché sono ancora qui, ma allo stesso tempo: non mi sento più la stessa persona. È la tensione tra l’obbligo implicito all’ottimismo e la verità intima del dolore. Vivere una grande perdita significa vivere in un mondo che non è più allineato al proprio. E ogni volta che qualcuno dice “è ora di andare avanti”, quel disallineamento aumenta.

 

Il paradosso dei survivors: essere forti senza sentirsi forti

 

Le storie delle persone che sopravvivono a eventi estremi hanno una caratteristica comune: non si sentono “eroiche”. Non si sentono “resilienti”. Non si sentono “speciali”.

Molti raccontano emozioni come confusione, colpa, vergogna, rabbia, smarrimento identitario. Eppure il contesto esterno (amici, famiglia, colleghi) tende a raccontare una narrazione opposta: “Sei incredibile”, “Io al tuo posto non ce l’avrei fatta”, “Sei un esempio di forza”. Questa distanza tra ciò che il survivor sente e ciò che gli altri vedono genera solitudine.

La guarigione è un riadattamento. Per molte persone, ciò che chiamiamo “guarigione” assume forme completamente nuove: cambiare ritmi, ridisegnare confini, dare nuovi significati ai gesti quotidiani, trovare modi di esistere che includano la perdita e non la neghino.

 

Dare un linguaggio al dolore: perché serve una narrativa più onesta

 

Quando diciamo a una persona in lutto che “passerà”, che “è forte”, che “deve reagire”, spesso togliamo dignità alla complessità della sua esperienza. Una società che non sa stare nel dolore produce survivors che si nascondono. Che si sforzano di sembrare guariti per non perdere legami. Che si sentono in colpa per i tempi lenti della loro ripresa. Per questo è necessario cambiare linguaggio: parlare di dolore come di un evento reale, non psicologicamente opzionale, normalizzare le emozioni ambigue, accogliere il fatto che certe esperienze non “si risolvono”, riconoscere che la vulnerabilità non è una mancanza, ma una risposta fisiologica a ciò che è accaduto.

Sopravvivere non è un punto di arrivo, è un cammino. E spesso questo cammino porta con sé risorse che non assomigliano per niente al trionfalismo della resilienza. Sono risorse più discrete, apparentemente più piccole e sottili: la capacità di sentire profondamente, una sensibilità raffinata, il coraggio di nominare ciò che altri evitano, il permesso di dire “non sto bene”, la libertà di non minimizzare più il proprio vissuto, E forse, come direbbe Devine, questa forma di verità emotiva è il modo più onesto per tornare a vivere, nonostante.

 

Riferimenti bibliografici:

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