Da bambina, alla fine di una lunga estate passata al mare, dopo mesi di euforia per i giochi-tutti-i-giorni, i bagni, i nascondini che non finiscono mai, il gelato per merenda e la guerra dei palloncini, arrivava sempre la voglia di qualcos’altro.
Era qualcosa che stava lì a dire che l’estate stava per finire, e andava bene così, lo capivi da piccoli segnali impercettibili.
All’improvviso, quasi senza accorgercene, un giorno dicevamo no al ghiacciolo e chiedevamo una fetta di pane col pomodoro. Un pomeriggio, invece, indugiavamo più del solito sui compiti per le vacanze fino ad allora ignorati. Un sabato mattina, ancora, sceglievamo i giochi della pineta: quelli uguali da decenni, le giostrine con canzoni decisamente fuori moda, le bancarelle fatte dai bambini che vendevano vecchi fumetti e intere collezioni di puffi o soldatini a 1.500 lire. Mentre gli altri restavano in spiaggia sotto il troppo sole a urlare, spararsi acqua e inseguirsi, noi ci riparavamo in pineta, sotto l’ombra dei tigli profumati, cullati dal ritmo delle bici sgangherate e dal clangore delle auto-scontro.
Era, forse, la voglia di tornare a casa, mi dico ora, ma non è esatto. A quei tempi era un desiderio preciso, un desiderio che ora non conosco più, riesco però ancora a ri-conoscerlo. Era, soprattutto, il fascino che certi negozi, grandi e carichi di cose ben ordinate, oppure piccoli e disordinati, avevano su di me: le cartolerie.
In un pomeriggio dei tanti, in cinque amiche (io, Sara, Anna, Jenny e la Fede) rinunciavamo alla lunga giornata in spiaggia, si salutavano gli amici ignari del nostro piano e in sella alle bici, armate dei nostri portafogli in tela di Snoopy o Scooby-Doo, superavamo la passeggiata per addentrarci nella cartoleria. Ricordo una cartoleria grande, grandissima, i libri e i diari impilati sotto la scala che portava su. Ricordo soprattutto il reparto astucci e matite. Le matite colorate sono sempre state il mio debole: mi piace guardarle in fila nella loro scatola e continuare a cercare la giusta gradazione di colori, a sfumare dal più chiaro al più scuro e poi ripartire daccapo, oppure tenerle tutte insieme in una tazza sulla scrivania. A volte tutto quello che ricordo degli anni passati alle elementari è l’odore delle matite nell’astuccio: quell’odore è la scuola stessa.
Andavamo in cartoleria come ora, da grandi, si potrebbe andare a fare un’incursione emozionante e segreta nella nuova boutique di alta moda, con l’adorazione di quella borsa meravigliosa che non è adatta né a te né al tuo portafoglio e, se osassi comprarla, dopo l’eccitazione resterebbe soltanto la rabbia per i soldi sprecati malamente.
Da queste uscite tra amiche tornavamo di solito con un bottino fatto di una gomma per cancellare a forma di fragola oppure una al gusto di mela, un temperamatite a forma di lattina di fanta, un minidiario da tasca col lucchetto.
Poi durante l’anno scolastico queste cose non riuscivi mai ad usarle, ma all’improvviso, mentre eri a scuola annoiata durante un’interrogazione di geometria, sbucava per caso dall’astuccio una gommina profumata, e allora tornava l’estate: rivedevi Sara, Anna, Jenny e la Fede che ti correvano incontro ad abbracciarti, ed era bellissimo immaginarle così, seppure ingoffate nei piumini col cappuccio, e nelle mani i loro temperini a forma di cuore, di teschio o di peperone che non funzionavano mai.
Qualche anno fa ho saputo che in quella città di mare, proprio una di queste amiche, ha aperto una cartoleria, di fronte alla scuola media: ho provato un senso profondo e concentrato di commozione mischiato a amore, tenerezza e nostalgia che non so spiegare.
“E’ stata un’esperienza che è durata poco”, mi ha detto poi la mia amica quando ci siamo riviste.
E’ vero, i sogni e le aspettative non sempre vanno di pari passo con la realtà e la vita di ogni giorno.
Ma per me questa notizia è stata, e così resta, il segno evidente che certe avventure che viviamo da bambini lasciano tracce molto profonde dentro di noi.