Secondo la filosofia platonica, la conoscenza consiste nel ricordo delle idee eterne contemplate dall’anima prima della nascita. La conoscenza dunque non è qualcosa che si costruisce passo dopo passo, qualcosa di nuovo, ma piuttosto è un processo in cui si ricostruisce qualcosa di dimenticato. La conoscenza umana è un processo di ri-conoscenza di quelle idee prime di cui portiamo un ricordo altrimenti inaccessibile. Questa reminiscenza, questo ricordo, è l’ ‘anamnesi’ (dal greco ἀνά-μνησις, “ricordo”).
In medicina e in psicologia l’anamnesi è la storia clinica di una persona: una raccolta di notizie circa le patologie sofferte, le abitudini di vita, lo stato di salute personale e dei famigliari, spesso essenziale per formulare una diagnosi.
Ricordare la propria storia, prendere del tempo per raccogliere informazioni, ricordi, pezzetti di passato, è un percorso verso una diagnosi possibile, ma è anche un percorso che ha già in sé qualcosa di terapeutico, nella cura, nella pazienza, nell’attenzione a se stessi, alla propria storia, al proprio dolore.
Ripercorrere la propria storia può essere doloroso, faticoso, difficile, e forse proprio per questo è qualcosa che viene spesso rimandato, protesi come siamo verso il futuro, verso quello che resta da fare, quello che dobbiamo fare, subito, prima possibile.
Trovare il tempo per raccogliere il ricordo è scegliere di dedicare attenzione al passato e al possibile dolore o alle ferite per poterle guardare, dare loro spazio, affinché possano venire alla luce e risplendere, come accade nel kintsugi.
Il kintsugi è un’antica arte giapponese che consiste nel riparare vasi e ceramiche attraverso l’uso di una lacca dorata che ne ricongiunge i pezzi esaltando la parte che si è crepata o rotta, rendendola più preziosa con l’utilizzo di oro o argento. La crepa non viene nascosta né minimizzata, ma anzi viene esaltata e abbellita, viene resa preziosa e ben visibile. L’oggetto diventa così nuovo e speciale, unico, come la sua nuova crepa dorata.
Il kintsugi è una metafora del dolore umano e della cura che merita.
E’ metafora delle nostre ferite grandi o piccole, dei nostri umani tentativi di riattaccarle, nasconderle, dissimularle, dimenticarle, quando la vera cura invece è saperle rendere speciali e luminose, è farne punti di forza e di bellezza da cui ricominciare. Un percorso per imparare a rendere speciali le ferite e la sofferenza, nuove occasioni per riscoprire la propria unicità, e la capacità di accogliere e accettare parti di sé sconosciute e imperfette, come imperfetta è la vera bellezza.
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