L’autopsia psicologica non è solo una tecnica. È un modo per onorare la complessità dell’esperienza umana quando si spezza. È il tentativo di restituire profondità alle storie che, nel momento della morte, sembrano ridursi a un gesto.
È un modo per dire che ogni suicidio merita di essere compreso nella sua interezza: non per spiegare l’inspiegabile, ma per riconoscere ciò che spesso rimane invisibile, per imparare a prevenire, e per accompagnare chi resta in un cammino che non dovrebbe essere percorso in solitudine.
Il suicidio irrompe nella vita come una frattura improvvisa. La percezione di chi resta è quella di un evento che scardina ogni senso di orientamento: un prima e un dopo che non si ricompongono. Le ricerche ci dicono che nella grande maggioranza dei casi la persona che si toglie la vita porta con sé una forma di dolore psichico, spesso silenzioso e difficile da comunicare (Cavanagh et al., 2003). Eppure, una possibile spiegazione a un gesto inspiegabile, non sta solo nella psicopatologia: il suicidio è un punto di arrivo complesso, fatto di storie personali, vulnerabilità, crisi, tentativi di resistere, relazioni che tengono o cedono, contesti che proteggono o feriscono.
Ogni suicidio tocca direttamente da sei a dieci persone, e coinvolge indirettamente un’intera comunità: amici, colleghi, compagni di scuola, vicini, professionisti della salute (Cerel et al., 2019). In questo senso, la parola survivors non indica solo chi ha perso un familiare, ma chiunque sia rimasto coinvolto emotivamente nella scia del gesto. Ognuno, in modi diversi, prova a rimettere ordine dentro un evento che sembra resistere al senso.
È proprio in questo scenario, complesso, frammentato, a volte caotico, che nasce e trova significato l’autopsia psicologica. L’idea, sviluppata negli anni ’60 da Shneidman, Farberow e Litman, da cui poi è nata la pratica dell’autopsia psicologica, era questa: se non possiamo più parlare con la persona, possiamo però provare a riconnettere i frammenti della sua storia recente, ascoltando le voci di chi l’ha conosciuta, studiando la sua documentazione clinica, leggendo i segni lasciati nei giorni e nelle settimane che hanno preceduto la morte. Non per trasformare la vita di qualcuno in un dossier, ma per ricostruire un’immagine più completa e meno distorta dal trauma della perdita.
L’autopsia psicologica non cerca colpevoli e non promette verità assolute. Cerca piuttosto coerenza. Cerca di comprendere quel misto di vulnerabilità e di eventi che può avere fatto inceppare un equilibrio già fragile. Le interviste ai familiari, agli amici, ai partner, ai professionisti diventano tessere di un mosaico, i documenti medici, i messaggi, le note, i racconti degli ultimi giorni aiutano a comprendere cosa potesse star vivendo la persona sul piano emotivo, relazionale, identitario.
Non è un’indagine fredda: è un lavoro delicato, rispettoso, che richiede la capacità di ascoltare senza giudicare e di restituire un quadro che tenga insieme la sofferenza e l’umanità.
Molte conoscenze sulla prevenzione del suicidio provengono proprio da questi studi retrospettivi. Sappiamo oggi, grazie alle autopsie psicologiche, che la fase successiva alle dimissioni ospedaliere è uno dei momenti più rischiosi, che l’assenza di speranza è più predittiva della sola presenza di ideazione suicidaria, che l’isolamento sociale pesa tanto quanto i disturbi psichiatrici, che il dolore emotivo cronico (quel psychache di cui parlava Shneidman) può diventare insostenibile anche in assenza di grandi eventi esterni. Non c’è un solo fattore che porta al suicidio: è l’accumulo, la somma, la saturazione progressiva.
Per le famiglie, questo processo può rappresentare, quando ben condotto, la possibilità di vedere la persona amata dentro un contesto più ampio, meno ridotto a un singolo gesto. Alcuni survivors raccontano che comprendere i fattori di rischio, gli eventi recenti, i segnali più sottili, li aiuta a collocare il gesto in un continuum, e la possibilità di trovare nell’intervista uno spazio di narrazione che, fino a quel momento, non avevano avuto il coraggio o la possibilità di aprire.
Tuttavia, è un processo che richiede cautela. L’autopsia psicologica può essere d’aiuto, ma se condotta con rigidità, con poca sensibilità o con l’idea di “trovare la verità” rischia di fare male. È necessario un approccio etico, una formazione specifica, la capacità di rispettare la dignità della persona deceduta e il dolore di chi resta. Nessuna domanda va posta senza attenzione, e nessuna informazione va cercata se può diventare intrusiva o colpevolizzante.
Suicidio e lutto da suicidio
Il lutto da suicidio è un’esperienza che sfida le categorie consuete del dolore. Non c’è solo la sofferenza in sé, c’è anche il peso delle domande senza risposta che rimbalzano di continuo, delle immagini intrusive che ritornano, dei pensieri che non trovano riposo.
Molti survivors raccontano di essersi trovati intrappolati in una specie di labirinto emotivo, dove ogni strada porta a una possibile colpa: non aver capito, non aver visto, non aver parlato, non aver insistito abbastanza. Altri descrivono la vergogna, il silenzio degli altri, lo sguardo giudicante o imbarazzato. La letteratura ci dice che il lutto da suicidio espone a un rischio aumentato di complicazioni psicologiche, depressione, ansia, disturbo post-traumatico e forme complesse di elaborazione (Jordan & McIntosh, 2011; Cerel et al., 2014).
Il suicidio è un evento che interrompe bruscamente la continuità di una vita, lasciando dietro di sé interrogativi sospesi, frammenti di storie, sentimenti contrastanti. Chi sopravvive a una perdita per suicidio vive spesso un tempo in cui convivono incredulità, dolore acuto, rabbia, colpa, e un senso di isolamento che nasce non solo dalla mancanza della persona amata, ma anche dal silenzio sociale che ancora circonda questo tipo di morte.
Molti familiari raccontano che la domanda che li accompagna non è tanto “perché è successo?”, quanto “cosa non abbiamo visto?” oppure “come stava davvero?”. Il lutto da suicidio è un lutto complesso: porta con sé stigma, difficoltà nel condividere la storia della persona, e la sensazione di essere rimasti soli con un enigma impossibile da interpretare e risolvere . La letteratura lo riconosce da anni come uno dei lutti più difficili da elaborare, con rischi aumentati di complicazioni psicologiche, depressione e disturbo post-traumatico da stress (Cerel et al., 2014; Jordan & McIntosh, 2011).
Molti studi, dalle review classiche di Cavanagh e colleghi alle ricerche più recenti, hanno mostrato come queste ricostruzioni retrospettive abbiano permesso di comprendere meglio cosa precede un suicidio: l’accumularsi di stress nei novanta giorni precedenti, l’aumento di comportamenti preparatori, la perdita di speranza come marcatore clinico significativo, il ruolo delle relazioni di supporto quando ci sono, ma anche quando mancano.
È grazie alle autopsie psicologiche se oggi conosciamo la vulnerabilità altissima dei giorni successivi a una dimissione ospedaliera, se sappiamo quanto il dolore cronico, i conflitti familiari irrisolti, l’uso di sostanze o la perdita del lavoro possano diventare tasselli di un mosaico che si compone lentamente, quasi in sordina.
Ogni suicidio scardina la trama della vita di chi resta: ciò che era noto sembra non bastare più, ciò che non era stato visto diventa improvvisamente gigantesco, ciò che si pensava di sapere appare irrimediabilmente incompleto.
E proprio perché il suicidio lascia dietro di sé una storia interrotta, un racconto spezzato, un’impronta che non combacia con ciò che gli altri ricordano, nasce il bisogno, umano e scientifico, di ricostruire.
Molte persone che hanno perso qualcuno per suicidio raccontano che il dolore più difficile è tenere insieme tutto ciò che resta sospeso: le domande senza risposta, la ricerca ostinata dei segnali mancati, il tentativo di capire cosa fosse accaduto nella parte di vita che non si è potuta vedere. Il lutto da suicidio è un lutto che interroga, è un vuoto che spinge verso la comprensione, anche quando comprendere non restituisce, non scioglie, non consola.
L’autopsia psicologica non vuole definire una verità assoluta (impossibile in una ricostruzione retrospettiva) ma produrre una valutazione ragionata dell’intenzionalità, dei fattori di rischio e dei processi soggettivi che hanno preceduto il gesto (Shneidman, 1981; Pouliot & De Leo, 2006). L’autopsia psicologica accompagna nella ricerca di significato e conoscenza, non con l’arroganza di chi pensa di trovare una verità definitiva, né con l’ingenuità di chi crede che un gesto così radicale possa essere “spiegato” fino in fondo. Piuttosto con l’umiltà di chi prova a ricostruire un percorso: uno stato mentale, una successione di eventi, un intreccio di vulnerabilità e tentativi, un insieme di condizioni che hanno contribuito a orientare la persona verso un comportamento che sfugge a ogni semplificazione.
Dunque, la funzione dell’autopsia psicologica non è solo scientifica. Per molte famiglie, quando è condotta con competenza e delicatezza, rappresenta un momento in cui ciò che era rimasto confuso prende una forma più chiara, un momento in cui si può dire ad alta voce ciò che non era mai stato detto, un momento in cui il gesto della persona amata può essere inserito in una narrazione più ampia, meno colpevolizzante, meno solitaria.
Quando e come nasce l’autopsia psicologica
L’autopsia psicologica è una metodologia retrospettiva e multidimensionale che nasce negli Anni Sessanta grazie a Edwin Shneidman e ai pionieri della suicidologia, i quali compresero una verità semplice e scomoda: dopo un suicidio, l’unica voce che non può più parlare è proprio quella della persona che avrebbe avuto più bisogno di essere ascoltata. Così si è iniziato a interrogare chi quella persona l’aveva amata, curata, accompagnata negli ultimi mesi: familiari, amici, colleghi, terapeuti, medici. Non per metterli sotto accusa, ma per permettere alle loro memorie di diventare materiali per una ricostruzione.
Nell’autopsia psicologica si raccolgono lettere, referti, messaggi, appunti, cartelle cliniche; si ascoltano racconti, percezioni, piccoli dettagli: l’insonnia che era tornata, un cambiamento nel tono di voce, un ritiro dagli amici, un gesto di riordino improvviso, una frase lasciata cadere come per sbaglio. Ogni elemento è una tessera. Nessun pezzetto ha senso da solo.
Il lavoro dello psicologo o del suicidologo, in questo contesto, assomiglia più a quello di un artigiano che a quello di un investigatore: si tratta di tenere tra le mani la fragilità degli altri senza farla cadere, di dare forma a un’immagine complessa senza pretendere che sia definitiva.
L’autopsia psicologica è una procedura retrospettiva e multidimensionale che, attraverso interviste ai familiari, ai conoscenti, ai professionisti della salute, insieme all’analisi di documenti clinici e personali, consente di ricostruire:
- lo stato mentale della persona prima della morte
- i fattori di rischio e di protezione
- i vissuti soggettivi
- l’eventuale presenza di disturbi psichiatrici
- il contesto relazionale e sociale
- gli eventi critici prossimali
- la plausibile intenzionalità suicidaria
Il suo obiettivo è quindi comprendere come e perché si è arrivati al gesto suicidario, producendo una valutazione ragionata e contestualizzata dell’intenzionalità.
L’autopsia psicologica risponde a tre grandi bisogni:
Chiarezza medico-legale:
In alcuni casi la distinzione tra suicidio, incidente o morte indeterminata non è immediata. L’autopsia psicologica contribuisce a:
chiarire la dinamica intenzionale, supportare indagini giudiziarie, ridurre errori classificativi nelle statistiche di mortalità
Comprensione clinica:
Ricostruire i fattori che hanno portato al suicidio permette di individuare pattern di rischio, studiare la vulnerabilità psicologica
analizzare l’interazione tra eventi stressanti, disturbo mentale, storia personale e risorse disponibili, generare conoscenze utili per la prevenzione
Questo approccio ha permesso, ad esempio, di identificare il ruolo chiave di disturbi dell’umore, dipendenze, disturbi di personalità e traumi, oltre all’impatto di isolamento, perdita, malattia fisica e violenza.
Supporto alle famiglie:
Sebbene non sia il suo obiettivo primario, l’autopsia psicologica può favorire nei familiari una maggiore comprensione dell’accaduto, la riduzione del senso di colpa, la possibilità di narrare e contestualizzare il dolore, un primo contatto con servizi di supporto.
È essenziale che questo coinvolgimento avvenga con sensibilità, attenzione etica ed evitando ogni rischio di oscillare tra ricerca scientifica e intervento psicologico non richiesto. L’autopsia psicologica richiede sensibilità, consenso informato, rispetto per la dignità della persona deceduta e attenzione al vissuto dei familiari. Va condotta da professionisti formati, con protocolli trasparenti e supervisionati, per ridurre bias di memoria, interpretazioni retroattive e pressioni emotive.
Metodo: strumenti e fasi operative
Una procedura di autopsia psicologica ben strutturata include:
Raccolta documentale
- cartelle cliniche
- referti psichiatrici
- farmaci e prescrizioni
- messaggi, lettere, note digitali
- documenti giudiziari o scolastici
- diari personali
Interviste semi-strutturate
Vengono condotte con familiari, partner, amici stretti, medici di base, professionisti della salute mentale, colleghi di lavoro.
Le interviste esplorano: temperamento, storia familiare, funzionamento sociale, eventi recenti, segnali di allarme, narrativa personale sulla sofferenza e il significato attribuito alla vita e alle esperienze.
Valutazione multidimensionale
La ricostruzione combina diagnosi psichiatriche probabili, tratti di personalità, fattori biologici, eventi critici, comportamenti autolesivi precedenti, pattern relazionali, mezzi e accesso ai metodi suicidari, fattori socioculturali ed economici, Stesura del profilo psicologico finale.
Il prodotto finale sintetizza in modo integrato grado di intenzionalità, motivazioni plausibili, precursori comportamentali, vulnerabilità preesistenti, possibili fattori precipitanti, valutazione delle condizioni al momento della morte.
L’analisi rimane probabilistica, mai deterministica: non ricostruisce “verità assolute”, ma scenari verosimili basati su dati convergenti.
L’autopsia psicologica è uno strumento importante e complesso, capace di generare conoscenza e di offrire un contributo fondamentale alla ricerca e alla prevenzione del suicidio. Non ricostruisce solo fatti, ma tenta di dare dignità alla storia psicologica di una persona, mettendo in luce quei fattori che hanno contribuito alla sua sofferenza.
In un’epoca in cui il suicidio costituisce una delle principali cause di morte tra giovani e adulti, comprendere i percorsi soggettivi che conducono al gesto è un atto scientifico, clinico e umano.
Il bisogno di una storia
C’è un aspetto profondo, spesso trascurato, che riguarda i survivors: chi resta dopo un suicidio ha bisogno di una storia. Non di una giustificazione, non di una colpa da assegnare, non di una diagnosi da esibire. Ha bisogno di una storia, cioè di un filo che colleghi il prima e il dopo, che renda possibile abitare il ricordo senza esserne travolto.
L’autopsia psicologica può offrire proprio questo: la possibilità di comprendere meglio, di vedere la persona nella sua interezza, di riconoscere la complessità senza addomesticarla. Può diventare un ponte tra il dolore individuale e la conoscenza collettiva, tra il lutto e la prevenzione, tra ciò che è accaduto e ciò che potremmo evitare in futuro.
Il suicidio è sempre un mistero inaccessibile, ogni tentativo di comprenderlo è un gesto di cura verso chi non c’è più e verso la vita di chi resta.
Puoi approfondire chi sono i survivors qui: Survivors, una definizione da eroe per chi non vuole essere eroe (la vita dopo un lutto per suicidio)
Riferimenti bibliografici:
Shneidman, E. S. (1981). The Psychological Autopsy. Suicide and Life-Threatening Behavior.
Shneidman, E. S. (1993). Suicide as Psychache. Jason Aronson.
Farberow, N., & Shneidman, E. (Eds.). (1961). The Cry for Help. McGraw-Hill.
Autopsia psicologica e studi retrospettivi
Cavanagh, J. T. O., Carson, A., Sharpe, M., & Lawrie, S. M. (2003). Psychological autopsy studies of suicide: A systematic review. Psychological Medicine.
Pouliot, L., & De Leo, D. (2006). Critical review of psychological autopsy studies. Suicide and Life-Threatening Behavior.
Conner, K. et al. (2012). Mental disorders among suicide decedents. American Journal of Psychiatry.
Jordan, J. R., & McIntosh, J. (2011). Grief after Suicide. Routledge.
Cerel, J., et al. (2014). The impact of suicide on the family. Crisis.
Cerel, J., Brown, M., Maple, M. (2019). How many people are exposed to suicide? Journal of Affective Disorders.
De Leo, D. (2010). Suicidio e tentato suicidio. Il Mulino.
Serantoni, G. (2020). Il lutto per suicidio. Edra.
Ministero della Salute & ISS. Linee guida e rapporti sul suicidio.
ISTAT. Rapporti sulla mortalità per suicidio in Italia.
Ricerche e linee guida internazionali
WHO (2021). Suicide Worldwide. Global Health Estimates.
CDC (2020–2024). Suicide Prevention Resource for Action.
American Foundation for Suicide Prevention (AFSP). Psychological Autopsy Program.



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