Abbiamo bisogno di compassione perché la vita è complicata.
Siamo tutti vulnerabili al dolore.
Proprio come te, sono vulnerabile alle malattie. Proprio come te, potrei fare un esame medico domani e scoprire che sono malato. Proprio come te, potrei sentire che un caro amico è morto in un incidente.
Queste cose possono accadere a ognuno di noi in qualsiasi momento, siamo tutti sulla stessa barca.
Nessuno, nessuno, sfugge.
Più lavoriamo insieme, più possiamo rendere sopportabile questo viaggio.
Questo riconoscimento della paura e del desiderio di alleviarla come aspetti comuni di ognuno, è alla base della compassione.
Le esperienze di vita possono diminuire la nostra capacità di dare e ricevere compassione.
A volte siamo intrappolati in meccanismi psicologici che ci impediscono di accettare la compassione dagli altri o da noi stessi. Ma possiamo spezzare questi meccanismi diventando consapevoli di come funziona il nostro cervello, diventando ‘consapevoli della nostra consapevolezza’.
Possiamo quindi iniziare a coltivare deliberatamente la compassione imparando a coltivare un’attenzione compassionevole, un pensiero compassionevole, un sentimento compassionevole e un comportamento compassionevole.
Impariamo a essere aperti alla sofferenza degli altri così come a quella verso noi stessi, dopo esserci aperti al dolore, possiamo iniziare a impegnarci e agire per alleviarlo.
Siamo tutti creati biologicamente.
Il nostro cervello è creato dai nostri geni, non è stato creato da noi, ma per noi dall’evoluzione, e come tale scopriamo che il nostro cervello può fare cose meravigliose (per esempio, trovare modi per curare le malattie) e cose terribili (per esempio, fare la guerra).
Il modo in cui il nostro cervello si è evoluto significa che può crearci molti problemi, in realtà, e il problema principale deriva dal fatto che abbiamo due cervelli: un cervello ‘vecchio’, antico, e uno ‘nuovo’, moderno.
Abbiamo un cervello vecchio, che ha un sacco di motivazioni e desideri che si sono evoluti molto tempo fa e che condividiamo con molti altri animali. Quindi, proprio come un cane di famiglia, siamo naturalmente motivati a evitare ciò che potrebbe farci del male e possiamo essere territoriali e possessivi. Siamo anche motivati a stringere amicizie, riprodurci e prenderci cura della prole. E proprio come un cane di famiglia, possiamo provare emozioni di ansia, paura, rabbia, desiderio e gioia.
Ma siamo molto diversi anche dagli altri animali. Circa due milioni di anni fa, uno dei nostri antenati primati iniziò a sviluppare un’intelligenza simile a quella umana, e ora siamo in grado di immaginare, ragionare, usare il linguaggio e usare simboli. Questo ‘nuovo’ cervello è favoloso se usato con saggezza, ma molto dipende da come interagisce con il ‘vecchio’ cervello.
Ad esempio, immaginate che una zebra avvisti un leone e scappi via: è proprio questo che il ‘vecchio’ cervello animale sa fare: individuare e reagire alle minacce. Se la zebra scappa, si calmerà, tornerà nella mandria e ricomincerà a mangiare allegramente.
Ma questo non accadrà a un essere umano col suo ‘nuovo’ cervello. L’essere umano inizierà a pensare: “Che paura! Riesci a immaginare cosa sarebbe successo se mi avessero beccato?”. Si sveglierà nel cuore della notte pensando: “E domani? Aiuto!” La minaccia è passata, ma il nuovo cervello non riesce a lasciarla andare. Rimuginiamo, e nella nostra mente eseguiamo simulazioni su simulazioni di scenari ipotetici. Ora, certo, questo può essere molto utile per capire come evitare i leoni, o per costruire una lancia. Ma può anche intrappolarci nella paura.
Farò un altro esempio, questa volta più vicino al mondo moderno. Supponiamo che ti piacciano le vacanze. Quando pensi alle vacanze, ti senti euforico. Ma poi, durante una vacanza, vieni picchiato brutalmente e derubato, e finisci in ospedale. Cosa succederà l’anno dopo quando penserai alle vacanze? Ecco, quel ricordo traumatico tornerà, e quindi le vacanze non ti sembreranno più piacevoli.
Lo stesso meccanismo è in atto con un bambino che è amato al mattino ma il cui genitore è violento e imprevedibile la sera, quando torna a casa. Il sistema di attaccamento (le parti del cervello che facilitano il legame affettuoso con i nostri genitori) si fonde con il sistema della paura. Via via che quel bambino cresce e inizia a sentirsi connesso con altre persone, si sviluppa il suo sistema di attaccamento, ma sfortunatamente, nella sua memoria emotiva, l’attaccamento è anche disfunzionale e questo rende quel bambino intrappolato in circoli viziosi da cui non riesce a uscire. Rimugina su cose che lo spaventano, rimugina sul fatto di essere inutile o inferiore. Si concentra su tutti gli aspetti negativi.
Non è colpa tua.
È la nostra naturale predisposizione alla minaccia, tipica del cervello ‘vecchio’ che porta te bambino, e poi te adulto, a innescare un comportamento oggi disfunzionale, per proteggersi dalla minaccia.
Come osserva Rick Hanson: “il cervello è un velcro per le cose negative e minacciose, ma un teflon per quelle positive”.
Siamo tutti così.
La compassione è radicata più profondamente nei sistemi cerebrali che hanno a che fare con l’intenzionalità e la motivazione, e se ci orientiamo verso la compassione, cambieremo l’intero orientamento della nostra mente.
Noi possiamo selezionare, intenzionalmente, uno dei nostri sistemi motivazionali di base – quello della cura – e possiamo coltivarlo, aiutarlo a crescere e maturare, attraverso la pratica. Dobbiamo anche capire esattamente perché è utile farlo: perché cambia il nostro cervello e ci darà molto più controllo sui nostri pensieri e sulla nostra vita.
Con la terapia focalizzata sulla compassione, ci alleniamo a ricordare, ricordare e a notare la gentilezza, e poi a costruire su questi ricordi.
Il monaco buddista e autore Matthieu Ricard, afferma che le nostre menti sono come giardini e crescono naturalmente. Ma se non vengono coltivate, sono influenzate dal tempo e da qualsiasi seme portato dal vento. Alcune cose cresceranno grandi e altre appassiranno, e alla fine potremmo non essere soddisfatti dei risultati. Possiamo arrivare a capire perché e come coltivare la compassione dentro di noi, quella compassione che ha la capacità di guarire e riorganizzare la nostra mente affinché possiamo iniziare a diventare le persone che vogliamo essere, in altre parole, ad avere la mente-giardino che desideriamo.
Questo richiede coraggio.
Compassione significa uscire e affrontare le proprie paure.
La compassione ci aiuta a muoverci in queste aree di paura e dolore. Ci insegna a essere preparati ad affrontare il dolore in noi stessi e ad alleviarlo.
Il cervello che abbiamo ereditato da milioni di anni di evoluzione è sia un dono che una maledizione, se non compreso e usato con saggezza.
Questa saggezza è il punto da cui possiamo iniziare a conoscere la nostra mente e a scegliere quali emozioni vogliamo coltivare nella nostra vita.
Paul Gilbert, Non è colpa tua
(traduzione mia)
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